Giovedì della Prima Settimana del Tempo Ordinario (Eb 3, 7-14 – Salmo 94 – Mc 1, 40-45)
Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori» (Eb 3,7).
Quella del Signore non è primariamente una voce che comanda, ma una voce che promette. È solo nell’ambito della promessa che prendono senso i comandamenti.
I comandamenti sono dati per non sbagliare strada, per non fallire il bersaglio, per evitare di essere esclusi dalla terra promessa, come accaduto a quelli usciti dall’Egitto a causa del loro ostinato vagare lontano da Dio.
Dio ha mantenuto la sua parola e nella terra promessa vi è entrata la generazione successiva. Mentre coloro che sono usciti dall’Egitto non ci sono potuti entrare per la loro incredulità
Accanto alla voce di Dio, che annuncia la sua promessa e chiama a godere del suo riposo (cfr Eb 3,11), c’è sempre anche la voce dell’incredulità.
La promessa, anche se diversamente espressa, è essenzialmente una: renderci partecipi del suo amore e farci rimanere in esso.
Promessa già realizzata in Cristo: «Siamo diventati partecipi di Cristo, a condizione di mantenere salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuto fin dall’inizio» (Eb 3,14).
Dio non ritira mai le sue promesse, ma la concretizzazione nel nostro vissuto personale e comunitario, è affidata alla nostra fede, alla nostra corrispondenza, al nostro libero consenso.
Nel nostro cammino incontriamo oggettive difficoltà, personali e comunitarie, ma tutte possono essere affrontate confidando in Dio. Non solo perché il Signore trasforma gli ostacoli in occasioni di crescita, ma perché il suo amore e la sua fedeltà sono più grandi di qualsiasi ostacolo, di qualsiasi sofferenza, di ogni male.
Sappiamo bene che l’esperienza del male è all’ordine del giorno. Male inteso come pretesa/ribellione, come cuore perverso e senza fede che ci allontana dal Dio vivente. Male inteso anche come malattia, sofferenza, esclusione ed emarginazione, ben evidente nella figura del lebbroso presentata dal vangelo.
Il lebbroso del Vangelo è un uomo che non si arrende, che non vive passivamente la sua situazione di dolore e marginalità, ma la combatte con le armi della tenacia e della fede, supplicando Gesù in modo breve e semplice: «Se vuoi, puoi purificarmi!» (Mc 1,40).
Il lebbroso non si autocommisera, ma cerca la relazione con Gesù. «Venne da lui un lebbroso» (Mc 1,40). È il lebbroso che rompe il cerchio. Lo fa per il desiderio di uscire dalla sua situazione e perché ripone fiducia che Gesù possa aiutarlo ad uscirne.
E Gesù, compiendo un gesto rivoluzionario e contro la legge mosaica, lo tocca e lo guarisce: «Lo voglio, sii purificato!» (Mc 1,41).
L’atteggiamento del lebbroso, che non rimane prigioniero della sua condizione e del pensiero comune del tempo, che considerava la sofferenza e la malattia frutto del peccato, ci dice che non dobbiamo scivolare nell’accettazione passiva e inerte del dolore umano.
Offrire a Cristo il proprio dolore per viverlo in comunione con lui, è un culto spiritualmente elevato. Ma è culto elevato anche un impegno attivo per eliminare tutto ciò che provoca la malattia, il dolore, l’emarginazione, lo svuotamento.
A questo proposito, mi paiono illuminanti le parole del Cardinale Gualtiero Bassetti, quando racconta la sua esperienza del coronavirus: «È un corpo estraneo che prende possesso della tua persona e ti svuota dal di dentro. È terribile: non soltanto ti toglie le energie fisiche ma anche quelle psicologiche e direi spirituali. Ti riduce all’improvviso a una larva» (Avvenire 19-12-20).
Le ferite non sono solo quelle che fanno soffrire il nostro corpo, ma anche quelle emarginazioni e solitudini causate da un contesto che esclude.
Quelli che stanno bene, o pensano di stare bene, si sentono sempre disturbati da quelli che stanno male e, anziché piegarsi alla comprensione e alla cura, mettono etichette e isolano, aumentando di fatto la malattia, propria e altrui.
Come il lebbroso, genuflessi davanti a Gesù supplichiamo con fede: «Sé vuoi, puoi purificarmi!» (Mc 1,40). Purificami dalle mie malattie. Purificami dalle mie chiusure, incomprensioni ed emarginazioni nei confronti di chi soffre, soprattutto quando la sua sofferenza non mi appare evidente e la vivo con indifferenza.
Se la nostra preghiera sarà fatta con fede e piena disponibilità, dentro di noi sentiremo sicuramente Gesù che dice: «Lo voglio!».