«Perdona a noi i nostri debiti, come anche noi li perdoniamo ai nostri debitori» (Mt 6,12).
«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). In questa beatitudine c’è una particolarità: è l’unica in cui la causa e il frutto della felicità coincidono, la misericordia. Coloro che esercitano la misericordia troveranno misericordia, saranno “misericordiati”» (papa Francesco, Udienza 18-2-21).
Parlare della misericordia è difficile anche per le difficoltà che incontra ogni discorso su quello che si vive e si fa: la misericordia si fa, si riceve, si vive.
Esempio: la sequenza di parole “farina, zucchero, uova, burro, cacao” non può avere nessun significato per chi, in pratica, non abbia almeno una volta assaggiato i singoli elementi che, in quanto componenti di una ricetta, divengono ingredienti.
La misericordia è, nella grande ricetta della proposta cristiana, un ingrediente tra i più centrali, immancabile e insostituibile. Ma può essere facilmente equivocata.
Quando Paolo incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14).
Ma dopo averlo incontrato cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come “spazzatura” di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (cfr Fil 3,8).
Il rapporto tra Paolo e il Risorto diventò talmente profondo da indurlo a sostenere che Cristo non era più soltanto la sua vita ma il suo vivere (cfr Fil 1,21). Ed arriva ad affermare che l’uomo è giustificato per mezzo della fede e non dalle opere della legge. Non perché, una volta accolta e professata la fede, le opere della giustizia siano trascurate, giacché la fede opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14), ma perché la giustificazione è per mezzo della fede, anche senza aver prima compiuto le opere, e non arriva dalle opere.
Per questo, prima di soffermarsi sui temi che cercheremo affrontare in questa Quaresima, vorrei fare una premessa che parte da un’affermazione di Paolo VI: «Il mondo soffre per mancanza di pensiero» (Popolorum progressio, 85).
Occorre ricominciare a pensare per non sbagliare orizzonte di vita, anche vivendo cose in sé buone, e per rendere ragione della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15).
Per non cadere nella trappola che oppone le opere alla fede, la religione al Vangelo, è necessario interpretare tutto alla luce dell’avvenimento Gesù Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza.
Il rischio vero, per chi si professa cristiano, è proprio quello di diventare un asettico esecutore di precetti e “consumatore” di devozioni, senza cercare il volto di Cristo.
Non solo… Il Dio della libertà, che pone estrema fiducia nella sua creatura, affida all’uomo il compito di “essere” volto di Cristo sulla terra.
Gesù parla di amore, libertà e coscienza. Privata del volto di Cristo e dell’incontro con lui, la religione parla di miracolo, mistero e autorità, coltivando l’immaturità e generando sottomissione.
Gesù ha forse compiuto miracoli, ha presentato in sé il mistero divino, ha parlato e agito con autorità, ma dietro le singole parole si nasconde una visione opposta.
Per affrontare questo tema, sia pur brevemente e in modo schematico, mi avvalgo di uno degli autori più emblematici della storia della letteratura di ogni tempo: Fiodor Maria Dostoevskij. E precisamente della Leggenda del Grande Inquisitore, contenuta nel romanzo I fratelli Karamazov.
La storia è nota: Gesù Cristo torna sulla terra, per la precisione a Siviglia nel XVI secolo, nel periodo della più aspra inquisizione. E, come nella Palestina di tanti secoli prima, vi compie miracoli e risuscita una fanciulla con le parole «Talità kum»: uniche parole che pronuncia durante l’intero racconto. E, come nella Palestina di tanti secoli prima, viene acclamato dalle folle come Salvatore. Proprio in quel momento, passa accanto alla cattedrale il cardinale grande inquisitore in persona.
Ha visto deporre la bara ai piedi di Gesù e ha visto la bambina risuscitare. A quel punto allunga un dito e ordina alle sue guardie di arrestarlo.
Nella cella di reclusione, nella notte, Gesù riceve la visita del novantenne capo dell’Inquisizione, che immediatamente lo riconosce.
In un lungo monologo, il vecchio cardinale mostra con rigorosa coerenza tutti i punti deboli della natura umana.
Le accuse che l’Inquisitore muove contro Cristo sono quelle che lo vedono responsabile di una fiducia e una misericordia eccessiva nei confronti degli uomini.
Secondo l’Inquisitore, Cristo è tornato come un disturbatore, perché ritiene –errando- che gli uomini siano capaci di atti di bontà, di libertà autentica, siano ancora in grado di poter conseguire verità e bellezza.
L’Inquisitore, invece, dice di aver capito che il vero segreto dell’uomo è nella mediocrità, nella gregarietà, nella incapacità di poter essere autenticamente libero.
L’Inquisitore afferma di essere lui il vero misericordioso, poiché non indica agli uomini compiti alti, impossibili per le loro povere possibilità. Mentre Cristo, a suo dire, non avrebbe desiderato la vera felicità degli uomini.
«Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e schernendoti: “Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu”. Tu non scendesti, perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore. Ma anche qui Tu giudicavi troppo altamente degli uomini, giacché, per quanto creati ribelli, essi sono certo degli schiavi. Vedi e giudica, son passati quindici secoli, guardali: chi hai Tu innalzato fino a Te? Ti giuro, l’uomo è stato creato più debole e più vile che Tu non credessi! …Stimandolo meno, avresti anche meno preteso da lui, e questo sarebbe stato più vicino all’amore, perché più leggera sarebbe stata la sua soma. Egli è debole e vile.»
L’Inquisitore (come dimostra anche la sua vicenda di persona ascetica) è un uomo che ha preso estremamente sul serio il messaggio evangelico. E il suo discorso non può essere semplicemente rigettato come falso.
Chi può negare che le persone cercano miracoli, che sono attratte dal mistero, che vogliono sapere cosa è giusto fare o che il comandamento dell’amore non sia qualcosa che sfugge al controllo della ragione?
Si può arrivare col ragionamento a dire che è giusto amare il prossimo, ma questo non significa amarlo concretamente, provare amore per le persone concrete.
Ancor più evidente è il caso del perdono. Il genitore di un figlio assassinato può ripetersi mille volte che è giusto perdonare (e già questo implica uno sforzo notevole…), ma non è più ‘naturale’ (‘umano’) che, nei confronti dell’omicida, provi odio profondo, anziché vedere in lui un fratello?
L’Inquisitore ricorda la sproporzione tra le ‘pretese’ di Cristo e le nostre capacità, di qui il rimprovero al ‘prigioniero’ di aver sopravvalutato l’uomo: non siamo abbastanza forti per amare.
Il progetto incarnato dal Grande Inquisitore prevede la trasformazione dell’ideale evangelico in una morale più accessibile all’uomo; una religione che propone gesti possibili, alla portata di tutti.
In questo modo, anche i deboli crederanno di poter raggiungere la felicità eterna, sottometteranno la loro libertà ai precetti della Chiesa, ricevendo in cambio una felice speranza nell’aldilà.
Così tutta la terra sottomessa, illusa ma felice. Questo è il progetto del Grande Inquisitore: portare in terra la felicità a tutti, dato che quella celeste è al di fuori della portata di molti.
Cristo non risponde all’Inquisitore. O almeno così pare, ad una prima lettura. In realtà, la risposta c’è. Si trova nelle uniche parole pronunciate: Talità Kum! Alzati! Ed è tutta nello sguardo amoroso che Cristo continua ad indirizzare al suo carceriere, sino alla fine. Nessuna Inquisizione è in grado di spegnere l’amore di Cristo per l’uomo.
Proprio lo sguardo d’amore di Cristo, fa crollare tutto il ragionamento dell’Inquisitore. In quello sguardo, il Vangelo si manifesta non più come un comandamento impossibile, ma come un messaggio d’amore per l’uomo.
Nel Vangelo, più e prima che un “tu devi”, si trova un “Io ti amo”. L’amore per Dio e per il prossimo è risposta all’amore ricevuto da Lui.
È vero che amare è difficile, sovrumano in certi momenti (amate i vostri nemici), ma è contemporaneamente vero che Dio non ha abbandonato l’uomo in balia di un comando impossibile sotto la minaccia della dannazione.
Cristo lo ha promesso: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Il Dio di Gesù Cristo non è mai lontano dall’uomo.
L’uomo senza Dio sarebbe davvero incapace di amare. La razionalità non basta. Il moralismo non basta. In questo è giustificabile il pessimismo antropologico dell’Inquisitore.
Ma di fatto l’uomo non è mai senza Dio. Ed è proprio con l’aiuto di Dio che può riuscire nel compito sovrumano di amare, perdonare, seguire il messaggio evangelico.
Per questo, al termine del lungo monologo, Cristo bacia l’inquisitore, che poi lo invita ad andarsene dalla terra e a non ritornare più. E lui se ne va. In silenzio.
Nella sostanza, di qualsiasi cosa parliamo (di amore, di misericordia, di peccato, di libertà, di precetti…), per cogliere l’angolazione giusta e, soprattutto per vivere la libertà dei figli di Dio, è necessario sempre avere davanti il volto di Cristo; cercare l’incontro con lui.
Ecco perché il Kerigma, l’annuncio fondamentale di Cristo morto e risorto, è il punto chiave di tutta la nostra fede e di tutta la nostra vita.