Seconda Domenica di Pasqua Anno B: At 4,32-35 – Sal 117 – 1Gv 5,1-6 – Gv 20,19-31
Come dimostra la situazione che stiamo vivendo, quando siamo delusi, feriti, arrabbiati è più facile cercare un colpevole e chiudersi in sé stessi e nel proprio gruppo, che vedere un futuro, coltivare una speranza, ripensarsi per ricominciare una nuova fase.
È l’atteggiamento che sembra caratterizzare i discepoli dopo la morte di Gesù, dopo l’umana sconfitta della Croce: prevale lo smarrimento, la paura, la rabbia nei confronti di un destino avverso. E si insinua anche la sfiducia nei confronti dei compagni.
Giuda aveva tradito, Pietro aveva rinnegato, quasi tutti erano fuggiti e ora qualcuno deve aver trafugato il cadavere di Gesù, perché il sepolcro nel quale era stato deposto è vuoto.
Una comunità nella quale si insinua la sfiducia, vive nel sospetto, si chiude in difesa e rischia di sgretolarsi. Comunque, manca delle potenzialità necessarie per essere una comunità generativa.
Il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato ci parla dei discepoli che stanno a porte chiuse, paurosi, che parlano delle apparizioni, come quella a Maria di Magdala, ma ancora mancano della potenzialità della fede.
Non basta un’apparizione, anche se pur importante, per cambiare un cuore diffidente, che non si lascia andare alla speranza. Lo fa capire lo stesso Gesù nella parabola del povero Lazzaro, attraverso la risposta di Abramo al ricco che vuole salvare i fratelli dai tormenti nei quali ora lui si trova: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»» (Lc 16,31).
Parole appropriate e un’apparizione possono certamente scaldare il cuore e infondere un certo vigore, come avviene per i due discepoli in cammino verso Emmaus. Possono far maturare l’idea della risurrezione, ma non bastano a trasformare nel profondo un cuore deluso, diffidente e chiuso.
Per passare dall’idea alla realtà, c’è bisogno di qualcosa, di un incontro vero, capace di sconvolgerci e coinvolgerci in tutto quello che siamo, a partire dalle nostre ferite.
Gesù si fa riconoscere proprio mostrando i segni della sua sofferenza. Le sue ferite parlano di lui, dicono chi è.
Anche le nostre ferite parlano di noi. Raccontano la nostra storia e dicono anche come e quanto abbiamo amato.
Il segno che l’incontro col Signore risorto è un incontro vero è dato dalla gioia: «i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20).
Ma quando questa gioia non si vede sul volto e non traspare dalle parole dei discepoli che annunciano di aver visto il Signore (cfr Gv 20,25), questo stesso annuncio, anziché una testimonianza positiva, rischia di diventare un impedimento per la fede nella risurrezione.
Le parole con cui Tommaso risponde quando gli altri apostoli gli dicono di aver visto il Signore, sono certamente segno del suo scettiscismo. A lui non basta sentir parlare di Gesù, ha bisogno di vederlo: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20, 25).
Per Tommaso, come a ogni donna e ogni uomo di ogni tempo, non è sufficiente una comunità che gli parla di Gesù: ha bisogno di una comunità che glielo faccia vedere e incontrare.
Questo mi fa pensare che, forse, la gioia provata nel vedere il Signore, non sia stata molto evidente, come se i discepoli facessero fatica ad accogliere la vita piena (shalom) donata dal Risorto.
Gesù è paziente anche e soprattutto con chi fa fatica a credere. Otto giorni dopo ritorna e invita Tommaso a mettere il dito nelle piaghe, per dire a lui e a ciascuno di noi: sono morto proprio per te!
E questo fa fare a Tommaso il passo decisivo, scoprendo che Dio si era abbassato fino a quel punto per venirgli incontro: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
Gli altri si erano fermati alla gioia per il Signore che, morto sulla Croce, era vivo. Tommaso, invece, nel Risorto vede Dio.
Gli effetti della risurrezione non si vedono solo dopo la morte. Quando l’incontro col Risorto è vero, gli effetti sono evidenti anche nell’oggi della nostra vita personale e comunitaria, a partire dalla gioia e dall’apertura al futuro, fino ad arrivare idealmente ad avere «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32).