Omelia Badia Fiorentina 22 settembre 2021

Ventiquattresima Tempo Ordinario 1: Esd 9,5-9   Tob 13   Lc 9,1-6

Ciascuno di noi, prima o poi, può trovarsi a sperimentare quello che sta vivendo Esdra a causa delle infedeltà scritte nella propria storia personale e in quella del suo popolo (cfr (Esd 9,5).

Non sono le episodiche cadute che allontanano da Dio e ci tolgono la libertà, ma quel costante atteggiamento del cuore e della mente nutrito da logiche tutte umane, anche se verniciate religiosamente.

Il Signore ci vuole liberi e non ci abbandona mai nelle nostre schiavitù. Ci sarà sempre la grazia di “un resto”, che con fedeltà si rivolge a Dio anche per noi. Ci sarà sempre la grazia di “un resto” che il Signore si riserva anche dentro di noi e che nei momenti bui ci ravviva facendo brillare i nostri occhi e donandoci sollievo (cfr Esd 9,8).

Come Esdra, però, dobbiamo avere il coraggio di prendere coscienza della nostra concreta realtà, per provare vera contrizione, invocare la misericordia di Dio e fare l’esperienza della grazia che ci solleva dalle cadute e che ci sorregge per rinnovare ogni giorno la nostra personale e comunitaria alleanza con lui.

La dimensione comunitaria è essenziale. Gesù convocando i Dodici (cfr Lc 9,1), li costituisce proprio in comunità, facendo di loro un corpo ecclesiale.

Rispondere alla chiamata significa entrare in una storia e in una rete di relazioni che ci costituiscono. La testimonianza che il Signore ci domanda esige relazione e si fa relazione. La fede stessa viene da una relazione, giacché  «viene dall’ascolto» (cfr Rm 10,17).

La forza e il potere dato da Gesù ai suoi nell’inviarli ad annunciare la buona notizia (cfr Lc 9,6), infatti, sono finalizzati al bene dei fratelli e, quindi, chiedono relazione e richiamano alla responsabilità.

Non basta annunciare, bisogna anche prendersi cura, guarire, liberare. A chi soffre non si può annunciare una speranza senza toccare anche la sua sofferenza.

E non basta neppure limitarsi ad assumere il bisogno dell’altro. Senza il riferimento a Cristo e alla sua parola si rischia di snaturare il nostro essere discepoli e di trasformarci in ideologi e lottatori della società. E in teologi senza fede.

La riuscita di ogni annuncio, come la risposta alla chiamata, non è data dai mezzi a disposizione, dallo scandire bene gli orari della nostra giornata e neppure dalle circostanze favorevoli. Ma dalla relazione con Cristo e dalla fiducia in lui che ci chiama e ci manda. Una fiducia che spesso manca, anche se ci dedichiamo con fedeltà alla preghiera e al servizio.

In queste settimane nelle parrocchie – penso che avvenga anche negli istituti e nelle fraternità religiose – si moltiplicano gli incontri per programmare le celebrazioni, gli orari, le iniziative dell’anno pastorale appena iniziato.

Spesso si tratta di incontri abitudinari, stanchi. Ma anche quando sono incontri vivaci tutto sembra limitarsi alla discussione su ipotesi ed esigenze organizzative, che hanno anche una loro plausibilità.

Chi può dire che non è necessario intensificare la preghiera, favorire l’ascolto della Parola, coltivare maggiori momenti di adorazione e contemplazione? E chi può negare che occorre ripensare e anche potenziare il centro di distribuzione viveri, soprattutto in questo periodo, e formare i volontari per il centro di ascolto? E potremmo continuare

Il rischio è di fare propositi, se non addirittura programmi, frutto del nostro sentire e del nostro pensare, ma poco attinenti alla realtà delle cose e di quello che concretamente siamo. Soprattutto programmi senza fondamento, senza un’onesta verifica sull’effettiva centralità di Gesù Cristo nella nostra vita personale e comunitaria.

Ignorare o sottovalutare tutto quello che, dentro ciascuno di noi e all’interno della nostra comunità, emerge come vuoto da colmare, come ferita da sanare, come ostacolo da superare, come riconciliazioni da vivere, significa fermarsi al desiderio, dando priorità all’idea anziché alla realtà, autocondannandoci così a una vita impostata sulla forma. E la fedeltà alla sola forma, come spesso accade, può anche nascondere una certa insicurezza e la mancanza di libertà interiore.

Guardare con realismo dove siamo nel nostro cammino, come persone e come comunità, è una condizione indispensabile per la fecondità delle relazioni interpersonali e comunitarie e per essere rigenerati in Cristo: non «ciascuno seguendo la sua strada» (Is 53,6), ma insieme sulle orme del Cristo pastore e custode (cfr 1 Pt 2,21-25). È Lui il fulcro di tutto, il centro di coesione della «fraternità sparsa nel mondo» (1 Pt 5,9).

Come afferma l’Arcivescovo Betori nel sussidio diocesano per la catechesi sulla Prima lettera di Pietro: «i cristiani non si possono pensare al di fuori della comunità e a prescindere dai legami fraterni». E sappiamo bene che ci può essere comunità e fraternità solo nella ricchezza e nella fatica della relazione quotidiana. Imparando a guardarsi negli occhi.

La relazione interpersonale, vissuta «alla luce del vangelo e dell’esperienza umana» (GS, 46) rende credenti maturi, testimoni pensanti, costruttori di comunità;  ci insegna a stare nelle avversità e a vivere la gioia e la fecondità della comunione nella preghiera e nell’azione.

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