Schema Omelia Domenica 3 ottobre 2021

XXVII Domenica Tempo Ordinario Anno B: Gen 2,18-24   Sal 127   Eb 2,9-11   Mc 10,2-16

Gesù, con le sue parole, introduce sempre un pensiero che sconvolge il normale modo di ragionare, ma i farisei di cui parla il brano del vangelo non vanno da lui per ascoltarlo e arricchire la mente e il cuore, ma per metterlo alla prova.

La domanda che gli pongono i farisei è fatta proprio per tessere una trappola, nella quale far cadere Gesù e trovare un motivo per accusarlo: «è lecito a un marito ripudiare la propria moglie» (Mc 10, 2).

In Israele tutti sapevano che è lecito, perché consentito dalla legge, anche se vi erano posizioni diverse nell’interpretare il motivo del ripudio, espresso con «qualche cosa di vergognoso» (Dt 24,1). Qualcuno sosteneva che anche la minestra scotta poteva essere motivo valido per mandare via la donna.

È interessante notare come Gesù, parlando coi suoi discepoli, andando oltre il testo di Mosè, pone un’inedita parità di condizioni fra l’uomo e la donna (Mc 10,11-12).

Il senso della domanda posta dai farisei, però, va vista nell’aggettivo lecito e potrebbe essere così formulata: è giusto agire secondo la legge?

Rispondendo con una domanda, «Che cosa vi ha ordinato Mosè?» (Mc 10,3), Gesù prende le distanze da loro e dalla legge: cosa ha ordinato a voi? E poi afferma che quella legge è stata data per la durezza del loro cuore (Mc 10,5), ma non corrisponde all’intenzione originaria del Creatore.

La durezza di cuore a cui si riferisce Gesù è lasciare la donna senza protezione e la rinuncia a cercare di vivere la forza del bene. È quella mancanza di fede che spesso produce danno ai più deboli e che ci priva del coraggio e della bellezza che la grazia dona e domanda per avanzare nella via del bene.

Gesù va oltre il lecito e l’illecito, il proibito e il permesso e rimanda al disegno di Dio espresso nella creazione come progetto relazionale e unitivo.

Nella visione di Dio l’uomo e la donna sono chiamati a prendere coscienza di sé stessi e a riconoscersi nella fecondità della relazione, che trova nel matrimonio l’ambito umanamente più pieno.

«Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Nella solitudine non c’è vita. Siamo esseri relazionali, fatti per costruire relazioni, perché le relazioni ci costituiscono e il volto dell’altro ci interpella. A volte affascina, a volte infastidisce, altre volte provoca e mette in crisi.

La solitudine non si vice col potere e col possesso, come fa chiaramente capire la prima lettura, con l’immagine dell’uomo che impone il nome a ogni essere vivente (cfr Gen 2,19-20).

La grande tentazione, che perverte i rapporti, è proprio quella di possedere l’altro, di manipolarlo, di controllarlo. E quando non ci riusciamo, mettiamo in atto meccanismi per distruggerlo. I nostri conflitti generalmente nascono dal non accettare la diversità dell’altro, dal voler imporre all’altro le nostre visioni, dal tentativo di usare l’altro per i nostri scopi, anche sul piano sentimentale.

La vita relazionale è essenziale, ma la relazione, anche quella di coppia, non è immune dagli egoismi, dalla fatica e dai fallimenti, soprattutto quando non si è disposti a mettersi in gioco fino in fondo e quando si è costruisce sula solida roccia un comune progetto di vita fondato sull’amore.

Nonostante relazioni fallite, amicizie tradite, coppie spezzati, resta sempre valido l’originario disegno di Dio per cui vale la pena di aprirsi alla relazione, di rischiare un’amicizia, di osare un rapporto matrimoniale vissuto come donazione di sé.

Una relazionalità positiva non può basarsi su leggi e norme, anche se necessarie, ma su un costante cammino di maturità personale. Senza maturità la relazione rischia di naufragare nelle secche del nostro egoismo e delle nostre superficialità e di diventare luogo di strumentalizzazione, di abuso e di distruzione dell’altro.

Il disegno di Dio ci parla del valore delle relazioni e del valore del matrimonio. Ma sono le singole persone che possono vivere relazioni di valore e un matrimonio di valore.

In ogni ambito di vita, la positività dei rapporti esige la capacità di andare oltre sé stessi e quella disponibilità ad accogliere il regno di Dio «come lo accoglie un bambino» (cfr 10,14-15).

Il regno di Dio è la dinamica manifestazione di un amore che ci accoglie, che si dona e che ci rende capaci di vivere relazioni interpersonali, matrimoniali e comunitarie feconde; relazioni che incarnano l’amore sempre nuovo e trasformante del Padre.

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