Omelia Badia Fiorentina 23 febbraio 2022

Mercoledì 7à settimana T.O. – San Policarpo:  Giac 4,13-17   Sal 48   Mc 9,38-40

L’apostolo Giacomo, nelle poche righe della sua lettera che la liturgia di oggi propone come prima lettura, sottolinea una verità del nostro essere nel mondo: non sappiamo quale sarà il domani la nostra vita.

Per la verità non sappiamo neppure come saranno, e se saranno, le ore che ancora rimangono del giorno presente.

Questo non significa che dobbiamo vivere alla giornata, senza guardare al domani. Come persone, famiglie, comunità abbiamo bisogno di aver chiara la strada che intendiamo percorrere, di definire compiti, tempi, modalità, anche per aprirsi a una nuova creatività e a nuove possibilità generative.

Fare delle scelte di vita, e i programmi che queste scelte esigono, non è certo un male, ma una necessità. Direi che è anche un dovere.

Gli apostoli, attenti all’ispirazione dello Spirito, costruivano il piano dei loro viaggi missionari. Gesù stesso, per fare la volontà del Padre, si è dato degli obiettivi e dei programmi per svolgere la sua attività, fino a programmare il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, sapendo che lì «doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31)

Come dice Giacomo ai commercianti, la questione vera sta nell’arroganza, nel presupporre di tenere tutto sotto controllo, nel fare piani ponendo fiducia solo in sé stessi, nelle proprie capacità, nelle proprie forze.

Questo modo di porsi è effimero, perché un qualsiasi evento improvviso può cambiare la situazione reale, come sentenzia il libro dei Proverbi: «Non vantarti del domani, perché non sai neppure che cosa genera l’oggi» (27,1).

Quando Gesù dice di non preoccuparsi di quel che mangeremo e berremo, non condanna lo spirito di prudenza e di programmazione, ma ci mette in guardia dal confidare tutto nelle sole forze umane: un’illusione che la vita smentisce e che genera anche tormentose ansietà e disperate depressioni.

Appare dunque evidente che Giacomo, quando richiama la necessità di vivere nella consapevolezza che la nostra stessa vita è nelle mani di Dio, non intende certamente raccomandare l’utilizzo formale della pia formula “se Dio vuole”, che con l’abitudine può diventare vuota di senso per chi le pronuncia e per chi l’ascolta.

Non avrebbe senso dire «se il Signore vorrà» (Gc 4,15) e, contemporaneamente, prendere decisioni come se Dio non ci fosse, fare programmi che sono in contraddizione con la sua volontà, con quello che Gesù ha vissuto e insegnato.

Affermare «se il Signore vorrà» (Gc 4,15), ha senso quando rappresenta l’esternazione di una convinzione profonda, della consapevolezza che Dio cammina con noi, di una vita orientata all’ascolto di Cristo e all’incontro con lui.

Giacomo vuole proprio ravvivare la consapevolezza della presenza del Signore nella nostra vita e che questa presenza ci spinge a una logica diversa da quella centrata su noi stessi e sul solo ragionamento umano.

La logica di Gesù è sempre “altra” rispetto alla nostra e richiede una profonda e costante conversione; un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, che ha bisogno di un cuore aperto all’ascolto, per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente ed evitare di arroccarci nelle nostre visioni.

Il Signore opera indipendentemente da noi e dai nostri ragionamenti e corregge il nostro modo miope e immaturo di pensare e di agire, come ha fatto con Giovanni quando manifesta uno zelo esclusivista, rivendicando per il gruppo dei discepoli il monopolio dell’attività liberante di Cristo (Mc 9,38).

Vivere con convinzione la propria esperienza di Cristo, non significa coltivare un pensiero esclusivista, ma radicarsi in quello che è essenziale, che può esprimersi anche con modalità diverse.

Un chiaro esempio lo troviamo nel confronto fra Policarpo, di cui oggi facciamo memoria, e papa Aniceto sulla data della Pasqua: in oriente si celebrava sempre il 14 del mese ebraico di Nisan, qualsiasi fosse il giorno della settimana cada; a Roma veniva sempre celebrata sempre nel giorno del Signore, ossia la domenica successiva al 14 di Nisan.

Nessuno dei due riuscì a convincere l’altro, ma fu chiaro a entrambi che ciascuno aveva le sue ragioni. Venne quindi deciso di rimandare la questione, perché la discussione era sulla forma non sul fondamento: il fondamento è l’annuncio e la testimonianza del Risorto, non la data della Pasqua.

L’essenza sta proprio nella fede in Cristo risorto, in una vita vissuta nell’orizzonte dell’amore di Dio, mettendoci in gioco fino in fondo, sapendo che il Signore è sempre oltre quel che noi percepiamo di lui e che tutto è nelle sue mani.

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