Omelia Badia Fiorentina 6 aprile 2022

Mercoledì della quinta di Quaresima: Dn 3,14-20.46-50.91-92.95   Dn 3,52-56   Gv 8,31-42

La liturgia della parola ci pone chiaramente una sfida: essere discepoli per essere liberi; liberi perché discepoli.

La sequela di Cristo è presentata come un radicarsi nella sua parola, che consente di diventare consapevoli delle proprie schiavitù e dipendenze, di conoscere la verità e di sperimentare la libertà: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).

Il discepolo si lascia guidare dallo Spirito Santo alla verità intera, sapendo che mai su questa terra la potrà raggiungere pienamente.

Per questo il discepolo è una persona della Tradizione e della novità; una persona libera, non soggetta alle ideologie e alle mode del momento, neppure alle mode che spesso investono anche le pratiche religiose e la stessa spiritualità.

La verità libera, mentre la menzogna rende schiavi. Il peccato, che è menzogna a noi stessi e agli altri, schiavizza: «chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8,34).

La libertà vera, quella che rende libero il cuore e la mente, non è pienamente raggiungibile con le proprie forze, ma ci è donata: «se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (Gv 8,36).

Solo Gesù può renderci liberi. A noi è affidata la lotta per mantenerci liberi, per non diventare schiavi di noi stessi – dell’orgoglio, della pigrizia, dell’invidia – e delle cose, come il denaro, i beni, l’ultimo modello di uno specifico prodotto.

Rimanere in Cristo e nella sua parola, significa vivere una vera e profonda relazione esistenziale con lui. E vivere le esigenze di una relazione non rende affatto schiavi. Anzi, potremmo dire che è l’unico modo per vivere una libertà all’altezza della nostra dignità umana.

La libertà è frutto della capacità di vivere relazioni vere che, per il loro essere vere, sono liberanti.

Quei Giudei, di cui il brano del vangelo dice che avevano creduto a Gesù, sono lontani dalla verità. Non riescono a staccarsi dal loro pensarsi completi perché discendenza di Abramo e, per questo, non possono vivere una liberante relazione con Cristo.

La sola discendenza dal patriarca Abramo – il solo sapere che veniamo da una particolare discendenza – non è sufficiente. Come non è sufficiente una fede ereditata, che non solo rischia di essere inconsistente, ma spesso, proprio a causa di questa inconsistenza, genera presunzione e autosufficienza, come nel caso dei Giudei: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno» (Gv 8.33).

Questo ci dice che non basta credere a Gesù, ma che è necessario credere in Gesù, per ascoltare la sua parola e rimanere in essa.

Per fidarsi di Cristo e affidarsi a lui è necessaria una scelta personale. Solo una fede e una relazione vera ci fanno vivere la fedeltà, anche in mezzo a ostilità e persecuzioni di ogni tipo, fisiche, psicologiche e culturali.

La prima lettura ci mette davanti al «fuoco della fornace» (Dn 3,19) fatta attizzare dal re Nabucodonosor, convinto di poter imporre su chiunque la propria volontà, incutendo il timore delle fiamme.

Risulta però difficile, se non impossibile, piegare un cuore libero davanti alla vita e davanti alla morte, come quello dei giovani Sadrac, Mesac e Abdènego.

Le parole di Nabucodonosor, pronunciate dopo aver fatto gettare i tre giovani nella fornace, fanno capire che quando si cerca di asservire chi mette in gioco la vita per amore della verità e per mantenere la propria libertà, le carte in tavola possono cambiare e perfino sorprendere: «Ecco, io vedo quattro uomini sciolti, i quali camminano in mezzo al fuoco, senza subirne alcun danno; anzi il quarto è simile nell’aspetto a un figlio di dèi» (Dn 3,92).

Il brano di Daniele ci fa vedere che la fedeltà dei tre giovani, anche nella sopraffazione e nella tortura, non solo li salva, ma porta perfino al cambiamento del loro persecutore.

Nabucodonosor che aveva chiesto ai tre giovani di servire i suoi dei e di adorare la statua d’oro, pena la morte nel fuoco (cfr Dn 3,14), si trova a benedire «il Dio di Sadrach, Mesach e Abdènego» (Dn 3,95).

Il racconto del libro di Daniele esprime bene il necessario processo di liberazione che siamo chiamati a fare anche noi, senza il quale nulla di vero può toccare la nostra vita né farci vivere la relazione con il Dio della vita.

Le vicende terrene non sempre hanno umanamente un lieto fine, come quello dei tre giovani di cui parla Daniele, ma il cammino della verità e della libertà è sempre liberante in sé stesso.

Il Signore, che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), in ogni momento cammina con noi, si fa nostro compagno nel cammino che conduce al definitivo e liberante incontro col Padre.

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