Mercoledì Quinta di Pasqua: At 15,1-6 Sal 121 Gv 15,1-8
Le vicissitudini della Chiesa primitiva non sono tanto diverse da quelle che stiamo vivendo anche oggi. Il vangelo è stato dirompente allora e lo è altrettanto oggi. Se e quando non lo è, non è Vangelo.
La porta della fede che si è appena aperta per i pagani, specialmente con la predicazione di Paolo, rischia di venire chiusa, sprangata, a causa della visione legalistica che i farisei convertiti al cristianesimo hanno portato con sé.
Alla gioia per l’adesione dei pagani alla fede in Cristo, si accompagna la paura delle conseguenze sull’identità della comunità, che un simile ampliamento può portare.
L’inserimento di persone nuove, così come il graduale cambio generazionale, trasforma la fisionomia e le dinamiche interne ed esterne di ogni comunità.
Il naturale cambiamento, generalmente, porta le persone che da più tempo costituiscono una comunità a chiudersi in difesa di un “come eravamo”, spesso idealizzato e che comunque non esiste più, perché sostituito dal “come siamo” di ogni giorno.
Però, quel che avviene nella comunità di Antiochia, e non solo in essa, va ben oltre le inevitabili incomprensioni e i naturali conflitti che nascono in ogni comunità chiamata a fare i conti con le trasformazioni generate dal cambiamento dei suoi membri.
In discussione c’è il fondamento e il motivo stesso dell’esistenza della comunità, perché dalle posizioni in campo emerge una differenza dottrinale sostanziale, che mette in gioco anche il vangelo, con il rischio di “incatenarlo” a norme e precetti.
Per Paolo e Barnaba, la salvezza è per grazia; viene accolta per mezzo della fede in Gesù Cristo, morto e risorto.
I cristiani provenienti dal giudaismo, invece, sostengono che non si può essere salvati senza la circoncisione, senza il rito, senza quello che la persona può e deve fare davanti a Dio.
Se per la salvezza sono indispensabili opere e riti, la grazia non è più grazia e, addirittura, non è più centrale Gesù Cristo e neppure la fede.
Alla chiesa di Antiochia è ben chiaro che alla base di questo aspro confronto, c’è il valore e l’interpretazione del vangelo e il futuro dell’evangelizzazione.
Un primo e importante insegnamento, di cui tener conto, ci proviene dal fatto che non vengono prese decisioni affrettate. Viene deciso che Paolo e Barnaba vadano a consultare gli apostoli e gli anziani, anche se, a quei tempi, occorreva tempo per gli spostamenti.
Un secondo e importante insegnamento deriva dal fatto che Paolo e Bàrnaba, pur avendo coscienza di essere fedeli servitori del vangelo, non propongono una decisione secondo il loro punto di vista, ma vanno a consultare Pietro e gli Anziani, per trovare una linea comune. Anche se nel viaggio parlano della conversione dei pagani, «suscitando grande gioia in tutti i fratelli» (At 15,3).
A Gerusalemme si trovano davanti le stesse differenze. Alcuni credenti che provenienti dai farisei non accettano che Dio possa salvare chi non diventava giudeo, facendosi circoncidere secondo la legge di Mosè.
Il nocciolo di fondo, che mette sempre – anche oggi – in pericolo la priorità del vangelo, sta nel legalismo e nella esaltazione della forma, che possono manifestarsi in molteplici modalità, anche apparentemente innoque e persino buone.
All’inizio del cammino della chiesa, l’opera che l’uomo doveva compiere, era osservare le leggi e i riti di Mosè, come la circoncisione. Se guardiamo bene molte posizioni presenti anche oggi nella chiesa, vediamo che sono mosse da un legalismo e da un formalismo che rischiano di oscurare la bellezza del vangelo e di minare la centralità ed essenzialità di Gesù Cristo.
L’opera dell’uomo c’è ed è certamente importante, ma è frutto della grazia, non condizione per la grazia. Gesù non nega le capacità umane, ma ci dice che per fare frutto, occorre accogliere la sua azione e rimanere in lui, come lui rimane in noi (cfr Gv 15,4.5).
Il brano del vangelo, attraverso un intreccio di immagini – agricoltore, vite, tralci – ci presenta un intreccio di relazioni vitali: Gesù col Padre; noi col Padre attraverso la vitale relazione con Gesù: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5).
La relazione con Gesù è essenziale e prioritaria. I tralci senza la vite non possono fare nulla, perché hanno bisogno della linfa per crescere e dare frutto.
Ma fino a che siamo in cammino su questa terra, anche la vite, per fare frutto, ha bisogno dei tralci. Le opere, frutto della gratuità della salvezza, rendono evidente la grazia, ma non ne sono la causa.
Il fondamento è Cristo e a lui occorre guardare nella fede.