Quindicesima Domenica Tempo Ordinario Anno C: Dt 30,10-14 Sal 18 Col 1,15-20 Lc 10,25-3
Una vita passata a guardare solo a sé stessi, anche se per svolgere scrupolosamente i propri doveri o per tendere ad una spiritualità più alta, non porta a un fruttuoso rapporto con Dio e una vita felice.
La vita diventa piena quando siamo capaci di cambiare il nostro sguardo e, come ci insegna il testo del vangelo di oggi, quando siamo capaci di cambiare le nostre domande.
Le domande che ci facciamo e che poniamo rivelano quello che ci passa nel cuore: mostrano se siamo interessati solo a noi stessi o se sappiamo guardare anche a chi ci sta accanto.
A volte le nostre domande sono false, anche quelle che rivolgiamo a Dio. Sono false le domande che cercano solo la conferma di quello che già pensiamo; le domande che rivelano la nostra indisponibilità ad ascoltare risposte vere, per evitare di essere messi in discussione; le domande che tradiscono il disinteresse o un tentativo di fuga da una relazione profonda capace di cambiarci la vita.
Quella posta a Gesù dal dottore della legge sembra la domanda di un uomo interessato solo a garantirsi la vita piena, attraverso il proprio merito e il proprio sforzo: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25).
Quest’uomo, dottore della legge, conosce già la risposta alla sua domanda, ma vuole la conferma sul fatto che la felicità è frutto della fedeltà ai propri doveri. E, nel colloquio che segue, chiede ulteriori specificazioni, aspettandosi una risposta su cui poter disquisire giuridicamente: «chi è mio prossimo?» (Lc 10,29).
Con una parabola che parla del viaggio di altri, invece, Gesù fa fare al dottore della legge un viaggio interiore, un cammino di conversione, che porta a mutare prospettiva e a cambiare la domanda.
Non si tratta di chiedersi chi è il mio prossimo, ma di chi mi sono fatto e mi faccio prossimo.
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti» (Lc 10,30). Un uomo, senza aggettivi. Potrebbe essere giusto o ingiusto, ricco o povero, perfino un disonesto o un brigante.
Di fronte a una persona spogliata, colpita, sola, ferita, l’evangelista esplicita una sorta di cammino composto di verbi: lo vide, ne ebbe compassione, si fece vicino, gli fasciò le ferite, lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. E, quando prosegue il suo viaggio, lo affida all’albergatore: pagherò al mio ritorno.
Questo è il percorso da fare per diventare più umani, per far sì che la terra sia abitata da “prossimi”, anziché da indifferenti, e per vivere positivamente la relazione con Dio.
Non esporci con l’altro e per l’altro, può spingerci a passare oltre davanti a chi si trova nel bisogno, come hanno fatto il sacerdote e il levita, e a rifugiarci in un presunto amore per Dio, tanto disincarnato quanto falso.
«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27). Alla luce della parabola, si può dire che l’amore per Dio viene veramente vissuto dando concretezza all’amore per il prossimo, se non rimane nell’astrazione del nostro intimo, ma prende concretamente forma nell’attenzione per gli altri e nella cura delle ferite delle persone che si incontrano sul nostro cammino.
L’amore è esperienza viva, ricca di un dinamismo fattivo. È impossibile racchiuderlo in formule statiche, nei sentimentalismi astratti e negli aridi formalismi del culto.
La conoscenza della legge e la fedeltà al culto non sempre fanno crescere in umanità, rendendo sensibili ai drammi delle persone e al bene comune, e nel rapporto con Cristo.
Lo dimostra chiaramente l’atteggiamento del sacerdote e del levita e lo dimostra la diffusa latitanza da un qualsiasi impegno sociale e dall’assunzione di una pur minima responsabilità civica della maggioranza dei praticanti più assidui.
Dio lo incontriamo nella concretezza della nostra umanità e nell’attenzione all’altro, come fa capire la parabola presentando un uomo che, considerato lontano da Dio secondo alcuni schemi del tempo, si ferma per prestare soccorso al viandante ferito.
Nell’uomo che si prende cura di chi sta morendo possiamo identificare lo stesso Gesù, che si fa prossimo a chi soffre e che annuncia anche la sua ultima venuta: ««Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno» (Lc 10,35).
La vera strada del discepolo, la strada che chiunque si dica cristiano deve percorrere, sia pur con le proprie contraddizioni e i propri limiti, non può che essere la stessa strada di Gesù: la compassione, la cura e il farsi vicino ai fratelli e alle sorelle incontrate sul cammino della vita.