Schema Omelia domenica 9 ottobre 2022

Ventottesima tempo ordinario anno C: 2Re 5,14-17   Sal 97   2Tm 2,8-13   Lc 17,11-19

La fede in Gesù Cristo, quando coinvolge tutta la nostra persona e tutta la nostra vita, si esprime nella lode e nella gratitudine verso Dio, fonte di ogni dono, ci apre alla relazione e ci fa sperimentare la salvezza.

La stessa celebrazione dell’eucaristia sarà per noi effettivo rendimento di grazie a Dio, in Cristo, se la celebriamo con quella fede che ci fa porre in ascolto della sua parola, che ci fa riconoscere che ogni dono proviene da lui e che ci spinge a vivere in comunione con gli altri. Ma non sarà vero ringraziamento se viene vista e vissuta individualisticamente o come un rito propiziatorio o come un precetto da osservare.

Diventiamo incapaci di riconoscenza quando gli altri, e Dio stesso, sono visti solo in funzione di noi stessi; quando si rimane chiusi in una visione religiosa infantile, che dà più valore agli strumenti che Dio usa e alle persone da lui mandate che a Dio stesso; quando rimaniamo prigionieri della cultura legalista, per la quale ci sentiamo a posto quando seguiamo tutto quello che indica la legge.

Naamàn il siro, di cui parla la prima lettura, è capace di rendere grazie al Signore perché in lui si accende la luce della fede, perché riconosce che l’origine della sua guarigione è solo Dio: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele» (2Re 5,15).

Naamàn non sarebbe stato capace di una vera riconoscenza nei confronti di Dio, se in lui non fosse nato il germe della fede, o se avesse attribuito la sua guarigione alle acque del Giordano oppure al profeta Eliseo, che gli ha solo indicato la via della fede, che in questo caso passava dal bagnarsi sette volte nel Giordano.

La fede nasce anche dalla consapevolezza che quella che viviamo è sempre una situazione in cui, con le sole nostre forze, non è possibile nessuna salvezza. Ed è proprio la fede che fa vivere l’esperienza della propria fragilità e del proprio limite sempre aperti al dono e alla gratitudine e senza cedere alla rassegnazione.

Come sperimentiamo quando condividiamo con altri uno stesso percorso di dolore, una stessa camera di ospedale, le differenze spariscono perché accomunati da una stessa situazione.

Le cose, però, si trasformano rapidamente. Quando le situazioni cambiano ciascuno rientra nei propri schemi culturali e religiosi, come dimostra anche la vicenda dei dieci lebbrosi di cui parla il vangelo di oggi.

Isolati dal convivere sociale a causa della loro malattia, costretti a vivere fuori dell’abitato, i lebbrosi si riunivano in piccole comunità senza alcuna distinzione di classe, di nazionalità o di religione.

Camminano insieme e, incontrando Gesù, si rivolgono a lui con un unico grido di fiducia: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!» (Lc 17,13).

Gesù «appena li vide» interviene in loro favore, chiedendo loro un atto di fede: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» ((Lc 17,14).

La legge prevede che il lebbroso guarito si presenti ai sacerdoti, per essere reinserito nelle relazioni sociali e religiose. Gesù, con le sue parole, è come se dicesse loro: fate quello che dovete fare, consideratevi già guariti, credete nella vostra guarigione.

Il fatto che tutti e dieci si siano messi in cammino dimostra che tutti credono nella parola di Gesù, che puntualmente si realizza: «mentre essi andavano, furono purificati» (Lc 17,14).

Uno dei dieci, però, non prosegue il cammino, ma lodando «Dio a gran voce per essere stato guarito» (Lc 17,16), torna indietro da Gesù per ringraziarlo.

Gesù, vedendolo, osserva: «Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?» (Lc 17,18). E rivolgendosi all’unico che era tornato a rendere grazie, gli dice: «Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17,19).

Non si tratta di una semplice questione di riconoscenza, ma di fede e di salvezza, del rapporto personale con Gesù di Nazaret, tramite il quale Dio opera.

L’osservanza delle norme e la formalità del culto, senza la fede in Gesù, non rendono migliori le persone. Non rendono capaci di solidarietà e di riconoscenza; non accendono il cuore di amore e di passione; non aiutano ad entrare nella dimensione del dono e della gratuità della vita.

Dieci giorni fa sono stato sottoposto a un intervento chirurgico, reso necessario per chiudere definitivamente la fistola data dalla tracheotomia. La prossima settimana saranno tolti i punti e sono ovviamente contento di essere sulla via della guarigione.

Stare in buona salute è importante, ma non è lo scopo e il fine della nostra vita. Cercare la guarigione è certamente cosa buona, tanto che Gesù guarisce chi è malato.

Per rimettere insieme i pezzi della nostra vita, soprattutto nei momenti drammatici, per cogliere il senso del nostro essere nel mondo e per aprirci alla verità della relazione e della comunione con Dio e con i fratelli, però, la sola salute non basta. Non salva.

Come per il samaritano guarito, per essere salvati è necessario, anzi indispensabile, andare, tornare, da Gesù e mettersi alla sua sequela, coltivando la dimensione della lode verso Dio e della misericordia verso gli altri.

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