Scema Omelia domenica 26 marzo 2023

Quinta domenica di Quaresima Anno A: Ez 37,12-14   Sal 129   Rm 8,8-11   Gv 11,1-45

Dopo la samaritana e il cieco nato, oggi ci viene presentata la morte e il richiamo alla vita di Lazzaro. Di domenica in domenica il ritratto di Gesù si precisa. Attraverso i segni che compie, Gesù svela in modo sempre più profondo la sua identità.

Gesù, con l’episodio della Samaritana, si è presentato come acqua viva e Cristo; con la vicenda del cieco nato si è dichiarato luce del mondo e il Figlio dell’uomo; oggi si manifesta come la risurrezione e la vita e Figlio di Dio.

Per Marta, Gesù non sarà più solamente l’inviato di Dio o il Figlio dell’uomo, ma il Messia, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo a cui neppure la morte può resistere.

Chi è chiuso nelle proprie convinzioni e nei confronti di Gesù, continua con la propria critica: «alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”» (Gv 11,46). Anzi, più i segni si moltiplicano e divengono eclatanti, più aumenta la chiusura di mente e di cuore: «Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui» (Gv 11,48). Tanto che «da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Gv 11,48).

Con questo brano, a pochi giorni dalla Pasqua, ci viene data l’occasione per meditare, con onestà e serietà, sulla morte e sull’al di là, realtà e mistero che spaventa e che non possiamo sfuggire, e sulla fede cristiana nella risurrezione: la risurrezione di Cristo e, legata a quella di Cristo, anche la nostra risurrezione.

Lazzaro è morto mentre Gesù, proprio in quel momento di sofferenza e di pericolo, aveva scelto di non correre al capezzale del suo amico: «Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava» (Gv 11,6).

Questa esperienza di assenza, di drammatica delusione, mette alla prova la verità della fede di Marta e di Maria, e anche la nostra, che non può rimanere legata a risultati immediati, all’esito istantaneo della nostra preghiera.

La fede è fiducia nell’operato di Dio, ma soprattutto è fiducia in Dio, anche quando non sembra agire come noi vorremmo.

La fede è certezza che tutto, anche quello che sembra perduto, rientra nel progetto di amore di Dio: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate» (Gv 11,14-15).

A Marta, che gli va incontro amareggiata, «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (Gv 11,21), Gesù non chiede una fede generica nella risurrezione, «so che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno» (Gv 11,24), ma che creda che lui è «la risurrezione e la vita» (Gv 11,25); che creda che lui è più forte della morte e che non sarà la morte a dire l’ultima parola.

Vedendo piangere Marta e Maria e quanti erano venuti a consolarle, anche Gesù «si commosse profondamente e, molto turbato, scoppiò in pianto» (Gv 11,33).

Anche se sta per richiamare Lazzaro alla vita, Gesù si commuove sinceramente e piange, perché partecipa al dolore che provano Marta e Maria per la morte del fratello.

Scoppiare in pianto per la morte di un proprio caro, non segnala certamente mancanza di fede nel Dio della vita: anche nella certezza della risurrezione, umanamente la morte conserva tutto il suo peso e la sua forza brutale, che necessita anche del tempo del lutto.

Lazzaro è già nel sepolcro. La sua morte è irreparabile, senza strada di ritorno, come ogni morte su questa terra. Tanto che, alla richiesta di Gesù di togliere la pietra dal sepolcro, Marta risponde: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni» (Gv 11,39).

Dopo aver ringraziato il Padre, come se tutto fosse già avvenuto, a gran voce Gesù gridò: «Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11,43). Il grido di Gesù restituisce Lazzaro a questa vita: «Il morto uscì fuori dal sepolcro i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario». Ora tocca all’azione umana fare il resto: «Liberàtelo e lasciàtelo andare» (Gv 11,44).

Ascoltare la voce di Gesù ci apre alla vita eterna, ma ci fa anche uscire dai molti sepolcri che ci siamo costruiti e quelli nei quali la vita ci ha buttato e ci rende collaboratori nella sua opera di liberazione da ogni vincolo di morte e da ciò che conduce alla morte.

La fede cristiana non è un lusso per i tempi tranquilli. La fede in Cristo si misura direttamente col male e la morte: credere in Gesù, significa credere che lui è risurrezione e vita.

Se ci limitiamo a credere in Gesù solo per questa vita, «siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1 Cor 15,19).

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