Giovedì della sedicesima settimana tempo ordinario – dispari: Es 19,1-2.9-11.16-20 Dan 3 Mt 13,10-17
La prima lettura, che riporta in modo frastagliato parte del capitolo 19 del libro dell’Esodo, ci presenta gli israeliti che arrivano alle pendici del monte Sinai, dopo la prima esperienza di deserto fatta uscendo dall’Egitto.
Questo monte non è nuovo per Mosè: proprio da qui il Signore, parlando da un roveto che ardeva senza consumarsi, lo aveva inviato a liberare gli israeliti dalla schiavitù egiziana.
Come in un viaggio di ritorno, Mosè sale sul monte e il Signore lo chiama ancora verso di sé. Questa volta gli chiede di fare una proposta ai figli di Abramo che vagano smarriti senza meta e senza pace: volete diventare il popolo di Dio? Un “regno” di consacrati a lui, una nazione santa?
Come appare evidente anche dalle poche righe che abbiamo ascoltato, quella del popolo di Israele non è una spiritualità ascetica, solamente interiore, ma una spiritualità concreta, fisica: si ascolta, si guarda, si offrono inni di lode, ci si muove insieme, in processione, uscendo dall’accampamento.
Ognuno partecipa con tutta la persona all’azione comune, come dovrebbe essere per noi quando partecipiamo alla liturgia della Chiesa.
L’offerta e l’affidamento a Dio di tutta la vita, delle famiglie, degli animali, dei beni, esprime la consapevolezza che tutto ciò che si ha è dono di Dio e suscita il rendimento di grazie.
In questo contesto, Dio santifica il popolo attraverso Mosè: «Va’ dal popolo e santificalo» (Es 19,10). Essere santificati non significa non sbagliare più strada e non peccare, ma sentirsi appartenenti a Dio, sentire il bisogno di lui, riconoscere in lui la fonte della felicità e lasciarsi ispirare da lui nelle scelte quotidiane.
Come il popolo di Israele segue Mosè come sua guida, e questo lo porta ad essere santificato e ad accogliere l’alleanza che Dio gli propone, così seguire Gesù – che è «la via, la verità e la vita» (Cfr Gv 14,6) – ci conduce alla piena comunione col Padre e a vivere con maturità il nostro essere nel mondo, consapevoli che siamo costantemente chiamati a cambiare e a trasformare il contesto in cui siamo.
Alle folle, in questa fase della sua predicazione, si rivolge con discorsi sapienziali che veicolano un messaggio che va oltre quello che può apparire dalle immagini da lui usate nelle parabole che racconta. Con i discepoli Gesù, invece, ha un approccio diretto e una parola ulteriore, che spiega quello che insegna in pubblico.
Per divenire discepoli occorre essere in ricerca, sempre attenti a imparare. Quando ci si chiude all’ascolto, così come quando si va continuamente alla ricerca di segni a conferma di quello che già pensiamo, significa che abbiamo chiuso la porta alla novità di Dio e alla conversione.
Il regno di Dio non è un’idea o un concetto. È piuttosto un’esperienza che coinvolge e sconvolge. Coinvolge perché ci attira e ci rende protagonisti, quasi senza accorgersene. Sconvolge perché costringe a mettere in discussione la visione di Dio e del mondo che abbiamo.
La dinamica paradossale della rivelazione, Gesù la descrive con poche parole: «A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha» (Mt 13,12).
I discepoli, proprio perché seguono Gesù, possono giungere a una conoscenza sempre più profonda di lui e di quello che lui dice. Le folle, invece, non avendo preso una decisione per Gesù, pur vedendo e ascoltando non riescono a comprendere e si allontanano sempre più dalla logica del Regno.
Le parabole, dunque, non possono essere assimilate ai racconti a sfondo moralistico, che dicono come bisogna comportarsi per essere buoni cristiani.
Le parabole ci parlano del regno di Dio che irrompe nella storia e nella nostra realtà personale: chi pone la sua fiducia in Gesù, sperimenta che lui e il suo vangelo sono veramente la buona notizia che dà senso e prospettiva a tutta l’esistenza.