Schema Omelia domenica 14 febbraio 2021

VI Domenica Tempo Ordinario Anno B: Lv 13,1-2.45-46 – Dal Sal 31 (32) – 1Cor 10,31 – 11,1 – Mc 1,40-45

Ai tempi di Gesù, chi veniva colpito dalla lebbra, o da altra malattia similare, precipitava in una situazione di profondo isolamento. Oltre alla sofferenza per la malattia, per il timore del contagio veniva espulso dalla vita sociale e considerato punito per il peccato, che poteva anche riferirsi a suoi antenati di moltissime generazioni prima.

Due motivazioni che il progresso e una più approfondita conoscenza non sono riusciti a sradicare, come dimostra l’esperienza della pandemia.

Senza soffermarsi sulle esternazioni di chi ancora oggi grida al giudizio di Dio, basta pensare che per limitare la possibilità di contagio si invita costantemente al “distanziamento sociale”, anziché al più indicato distanziamento fisico.

Interrompere la socialità aumenta la diffidenza ed accentua la paura; fa guardare con sospetto chi si soffia il naso o ha un colpo di tosse; può suscitare perfino un vero e proprio senso di panico.

Occorre coraggio, creatività e determinazione per impedire che il distanziamento fisico degradi in distanziamento sociale e che la paura dell’altro diventi una caratteristica della nostra convivenza.

Si parla di vaccino e di immunità di gregge come deterrenti per arginare il contagio. Ma per superare i riflessi negativi sulle persone e sulla società di un distanziamento che non è solo fisico ma relazionale sociale, occorre sentirsi parte di uno stesso gregge, crescendo nel senso di appartenenza alla stessa comunità e nel sostegno gli uni gli altri.

Il lebbroso di cui parla il Vangelo, vuole guarire e rientrare nella dimensione comunitaria. E allora, anziché gridare di essere impuro, come prescriveva la legge, affinché le persone rimangano a distanza da lui, per fede o per disperazione, o forse per entrambe le cose, rischiando la morte si avvicina a Gesù, per supplicarlo in ginocchio: «Se vuoi, puoi purificarmi!» (Mc 1,40).

Di fronte a quest’uomo deturpato dalla malattia e isolato dal contesto sociale, attraverso il distanziamento imposto, Gesù ha una forte risonanza interiore.

La traduzione italiana ci dice che Gesù «ebbe compassione» (Mc 1,41), che patì-con-lui. La versione letterale, più precisamente parla di un “sommovimento delle viscere”, come un eccesso di rabbia: «si adirò».

Avere compassione, patire insieme, significa entrare in empatia e arrivare anche a provare gli stessi sentimenti, compresa la rabbia che una persona può provare per la condizione in cui una persona si trova.

Questo atteggiamento di Gesù dice molto sul valore della relazione e dell’amicizia sociale e di quale deve essere il nostro sentire di fronte alle persone che si trovano nella sofferenza, nell’isolamento e nell’ingiustizia.

L’atto più importante di questa narrazione, mi pare sia il gesto che rivela in modo chiaro e decisivo il frutto della compassione: «lo toccò» (Mc 1,41).

Alla trasgressione del lebbroso, che gli si avvicina contro la prescrizione della legge, Gesù risponde con un’altra trasgressione: lo tocca contro la prescrizione dalla legge mosaica.

Toccare un lebbroso significava venire contagiati anche dentro, nello spirito, diventando impuri. Ma qui accade il contrario: è l’influsso di Gesù che va al lebbroso e gli dona la purificazione.

L’accoglienza si rivela in certi gesti di affetto, come una carezza o un abbraccio. Ma anche, soprattutto in questo periodo, trasmettiamo alle persone quello che sentiamo con uno sguardo o anche semplicemente prestando ascolto, facendo sentire che ci siamo.

Gesù non si pone a distanza di sicurezza e non agisce per delega. Questo avviene ogni volta che riceviamo con fede un Sacramento: il Signore Gesù ci “tocca” e ci dona la sua grazia.

Pensiamo a quanto avviene nei sacramenti: il Signore ci tocca sempre con la sua grazia.

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