In ogni vangelo le prime parole di Gesù sono programmatiche, anticipatrici di tutta la sua vita, quindi particolarmente significative (Mt 3,15; Lc 2,49; Gv 1,38).
Questo vale anche per le prime parole di Gesù riportate nel vangelo secondo Marco: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,14-15).
Il messaggio di Gesù viene presentato in maniera riassuntiva, a un “sommario” che ci dice:
1) quando furono pronunciate queste parole: «dopo che Giovanni fu arrestato». L’attività e la vicenda di Giovanni sono già vangelo. È buona notizia perché annuncia e indica il compimento nella persona di Gesù di Nazaret;
2) dove Gesù parlava: non a Gerusalemme, ma nella Galilea delle genti, nel luogo della quotidianità, dove vivono persone che non hanno tempo per molte cose, nel luogo dei problemi, del lavoro, della fatica, delle preoccupazioni, delle gioie. Non Gerusalemme, centro del culto e della legge, ma la Galilea – simbolo della nostra esistenza quotidiana, fatta di problemi, di lavoro, di fatica, di preoccupazioni e di gioie – è il luogo/segno dell’incontro di Gesù con il mondo;
3) quello che Gesù proclama è il vangelo di Dio: vangelo che viene da Dio e che parla di Dio. Marco non usa mai l’espressione «insegnare il vangelo». Gesù non presenta una filosofia, non porta una legge, ma proclama la lieta notizia di un evento, di che cosa Dio fa per l’uomo, del suo modo di agire
4) il contenuto di questo annuncio, «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino», e il modo di accoglierlo «convertitevi e credete».
Non siamo in balìa del caso, del fato o del destino, ma siamo all’interno di un progetto in cui Dio Padre ha saldamente le redini e tutto conduce alla realizzazione del piano di salvezza.
Convertirsi è credere
Nel contesto religioso in cui Gesù parla, convertirsi significava “tornare indietro”, tornare sui propri passi. Ma Gesù cambia il significato, non perché cambia il significato delle parole, ma perché, con la sua venuta, sono cambiate le cose.
Convertirsi, per Gesù, non significa più tornare all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma fare un balzo in avanti ed entrare nel Regno, afferrare la salvezza che ci raggiunge gratuitamente, per libera iniziativa di Dio.
La parola conversione è associata al credere. Non si tratta semplicemente di operare una inversione di marcia, ma di entrare in una buona notizia.
È la fede nel Vangelo che creerà la condizione per una autentica, stabile, efficace conversione. Pertanto, convertirsi e credere non sono due momenti successivi: convertirsi è credere.
Credere richiede una conversione, ossia un cambiamento profondo nel modo di concepire i propri rapporti con Dio, passando dall’idea di un Dio che chiede, che comanda, all’idea di un Dio che viene a mani piene per darci primariamente sé stesso.
È la fede la vera conversione. È quella fede che fa suscitare la gioia di sentirsi amati da Dio e che porta a fondare la vita su questa certezza.
Il nemico, Satana, tenterà in tutti i modi di scalfire, corrodere questa fiducia in Dio facendoci vedere altre strade, a partire da quelle più vicine come la necessità di adeguarsi a norme e leggi come fossero queste l’elemento indispensabile per il rapporto con Dio.
Mentre è proprio il porre a fondamento la dimensione morale, anziché la persona di Gesù, che ci porta a sbagliare strada. Ci porta addirittura a opporci a Cristo stesso, come abbiamo visto la scorsa settimana con la Leggenda del Grande Inquisitore.
L’incontro con Cristo, la fede in lui, producono la conversione dalla ‘legge’ alla ‘grazia’ che stava tanto a cuore a S. Paolo”.
Gesù chiama i discepoli nella loro vita quotidiana, nella ferialità. Noi ci aspettiamo sempre qualcosa di straordinario ma Gesù entra nella normalità: «Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1, 16-18à).
L’avverbio “subito” con cui viene descritta la risposta di coloro che sarebbero diventati i primi seguaci, è fondamentale: non c’è una dilazione di tempo, non c’è l’idea di un percorso progressivo.
Quegli uomini si rendono conto che devono rispondere immediatamente. Ci sono dei momenti in cui ci rendiamo conto che il Signore ci chiama. Ed è proprio in questi momenti di grazia che dobbiamo essere pronti a rispondere.
Gesù chiama alla comunione, a condividere la sua vita, non tanto prima di tutto ad assimilare un insegnamento, una dottrina.
È un presupposto fondamentale. La vita cristiana del discepolato significa vivere una relazione.
Credere nel Vangelo non è assimilare un insegnamento o aderire a un progetto, ma entrare in una amicizia, sapendo che nella misura in cui viviamo questa amicizia inevitabilmente sentiremo la sovrabbondanza dell’amore.
Nel nostro cammino di conversione siamo tentati di trovare modalità di compromesso. Nella sostanza, vogliamo continuare a condurre la vita che conduciamo senza introdurre cambiamenti radicali.
Magari in Quaresima facciamo qualche fioretto, qualche rinuncia e anche forti digiuni; moltiplichiamo le devozioni e gli atti di carità. Ma il nostro modo di vivere non cambia nel profondo. Vogliamo si cambiare, ma non troppo.
Gesù invece vuole farci comprendere che nel momento in cui incontriamo lui è tale la pienezza che ne scaturisce che tutta la nostra umanità ne viene trasfigurata.
Si tratta di attivare un cambiamento non solo nel proprio cuore ma anche nel proprio modo di pensare e di agire e nelle nostre relazioni.
È come se Gesù ci dicesse: non pensate di fare un restauro conservativo o di mettere rattoppi nella vostra vita.
Diventare una realtà nuova comporta che chiudiamo certe porte, facciamo scelte coraggiose. I no, anche severi, debbono essere la conseguenza del sì grande che abbiamo detto al Signore.
È il Si di risposta al Si di Dio nei nostri confronti che fonda in modo solido il nostro itinerario di conversione e che ci fa passare dalla tiepidezza al fervore.
Basta pensare a quanto viene detto, in tono severo, nella lettera alla Chiesa di Laodicea: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo…Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca…Sii zelante e convertiti» (Ap 3, 15 s).
Il Si a Dio si esprime sempre in una conversione, che in questo caso è il passaggio dalla mediocrità e dalla tiepidezza “al fervore dello Spirito”.
Un passaggio che non possiamo fare da soli, così come da soli non ci si rialza se si cade nelle sabbie mobili.
«Quanto allo zelo, siate ferventi nello spirito, servite il Signore» (Rom 12,11). È lo Spirito Santo che opera in noi il cambiamento.
Certamente, come insegna una certa spiritualità che abbiamo ereditato, bisogna esercitarsi a lungo nella rinuncia e nella mortificazione, prima di poter sperimentare il fervore, ma per giungere alla vera mortificazione è necessario il fervore dello Spirito.
Lo sforzo personale, da solo, rischia di essere fatica vana.
Una vita cristiana piena di devozioni, mortificazioni e anche opere di bene, ma senza apertura all’azione dello Spirito, come dice il cardinale cappuccino Raniero Cantalamessa, predicatore della casa pontificia, somiglierebbe a una Messa nella quale si leggessero tante letture, si fanno grandi e interessanti prediche, si moltiplicano le preghiere dei fedeli, si portassero in offerta molto pani e vino, ma non avvenisse la consacrazione delle specie da parte del sacerdote, che agisce in persona Christi. Tutto rimarrebbe quel che è: pane e vino.
Chiedere lo Spirito e lasciarlo libero di agire
Ritorna il rapporto tra grazia e libertà, tra azione divina e azione umana, che domanda la ricerca di una sintesi, di un punto di incontro, sempre instabile, mobile, rinnovato in un oltre continuo, il cui orizzonte è Cristo “integro e totale”.
La nostra Quaresima trova il suo significato in quello che significò per Gesù l’essere spinto nel deserto dallo Spirito.
Gesù nel deserto digiunò, ma principalmente pregò, si sintonizzò con la volontà del Padre, per realizzarla nel ministero pubblico che stava per iniziare.
La nostra Quaresima dovrebbe essere anzitutto un tempo di ascolto della parola di Dio e di preghiera, prendendo le distanze (digiunando) da quello che può distoglierci dal ricordare il senso del nostro essere nel mondo.
Questo tempo di Quaresima dovrebbe essere pensato a cosa significa nell’oggi della nostra vita vivere la fede, la speranza e la carità, ponendo al centro la dimensione relazionale e ripensando il nostro essere comunità
La comunità non è un agglomerato di singoli, ma famiglia in cui integrarsi, dove prendersi cura gli uni degli altri, i giovani degli anziani e gli anziani dei giovani, noi di oggi di chi verrà domani.
Solo ricentrando in Gesù Cristo la nostra fede, saremo radicati nel Vangelo e capaci di vivere la dimensione comunitaria della fede, rendendo la nostra vita e la nostra comunità aperta, fraterna e capace di generare e trasmettere futuro.