Giovedì della Seconda Settimana di Quaresima (Ger 17, 5-10 – Salmo 1 – Lc 16, 19-31)
Il brano di Geremia che abbiamo ascoltato (17,5-10) e i versetti del Salmo 1 che abbiamo pregato ci illustrano l’effetto delle opere compiute con giustizia o con intenzioni poco trasparenti, perché il Signore «scruta le menti e saggia i cuori, darà a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni» (Ger 17,10).
La benedizione dell’uomo che confida nel Signore viene opposta alla maledizione di chi si fida solo di sé stesso, di chi si limita a confidare solo nell’umano.
La Bibbia non vuol certo dissuaderci dal coltivare la reciproca fiducia, dal sostenere il progresso umano che, anzi, è voluto da Dio, quando è orientato al bene e caratterizzato dalla fraternità. Ci mette, però, sull’avviso: nessuna fiducia e nessun progresso sono possibili, quando si confida solo in sé stessi, quando si rimane chiusi entro il solo orizzonte umano.
Confidare nel Signore non significa solo o principalmente mettere in pratica i suoi comandamenti, ma affidarsi a lui e vivere in comunione con lui, producendo frutti in qualsiasi stagione della vita.
Pertanto, convertirsi non significa semplicemente iniziare, o tornare, a vivere fedelmente l’osservanza della legge, ma trovare nel Signore la fonte della propria gioia, della propria fecondità, della pienezza.
Questo comporta che il fondamento di una vita autenticamente cristiana non sono i comandamenti o la questione morale o le regole civili o religiose, ma Dio.
Centro, fondamento e fine ultimo è la persona di Gesù, la comunione con lui e, in lui e nello Spirito, la comunione col Padre.
Convertirsi e credere in Cristo e nel suo Vangelo non è assimilare un insegnamento, ma entrare nella relazione di amicizia con lui. Un’amicizia che coinvolge totalmente e che ci fa sperimentare la sovrabbondanza dell’amore.
Se la nostra amicizia con Cristo rimane in superficie, ci accontenteremo sempre delle situazioni di compromesso, per non introdurre nella nostra vita cambiamenti profondi e radicali.
Magari in Quaresima moltiplichiamo le devozioni e gli atti di carità e facciamo qualche fioretto, qualche rinuncia e digiuni più o meno forti. Ma il nostro modo di vivere non cambia nel profondo.
Anche quando vorremmo sinceramente convertirci, non vogliamo cambiare troppo, per non rischiare i nostri equilibri personali, familiari, comunitari.
Accontentandoci di aggiustamenti superficiali, rischiamo di diventare asettici esecutori di precetti e “consumatori” di celebrazioni e devozioni, senza cercare il volto di Cristo, né godere della sua amicizia.
Se non si cerca, o si smarrisce, il volto di Cristo, si perde anche il volto dell’uomo. Si perde il proprio volto e il volto dell’altro.
È quanto avviene al ricco di cui parla il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 16,19-31). Gesù non lo presenta come una persona cattiva, ma come uno che, chiuso nella sua ricchezza, vive in un mondo artificiale che lo rende incapace di vedere la realtà e gli anestetizza l’anima.
La vita del ricco e del povero Lazzaro sembra scorrere su binari paralleli e non comunicati. Il ricco indossa vesti di lusso e ogni giorno banchetta lautamente, mentre Lazzaro è coperto di piaghe e muore di fame.
Al bisogno di Lazzaro, il ricco non oppone un rifiuto, perché neppure lo vede. Lo vede però, una volta morti entrambi, quando si trova a fare i conti con la cruda realtà.
Lazzaro rappresenta bene il grido silenzioso dei poveri di tutti i tempi e la contraddizione di un mondo in cui grandi ricchezze sono nelle mani di pochi. Il ricco, però, non viene condannato per le sue ricchezze, ma per aver vissuto chiuso in sé stesso, incapace di vedere, di sentire compassione e di soccorrere il povero Lazzaro.
Confidando in sé stesso e nelle sue ricchezze, il ricco non ha lasciato che la parola di Dio entrasse nel suo cuore. E, questo, lo ha reso incapace di aprire gli occhi e di vedere.
Potremmo domandarci quali sono le nostre ricchezze, che possono anche intellettuali o spirituali e non solo materiali, che rischiano di isolarci in un mondo artificiale, rendendoci incapaci di vedere non solo la realtà degli altri e delle cose, ma anche la realtà di noi stessi.
Per diventare capaci di vedere il volto dell’altro e di ascoltare le parole degli uomini, non servono situazioni eclatanti: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16,31).
Il volto dell’altro lo incontriamo, ascoltando la parola di Cristo. Nel volto di Cristo, infatti, risplende il volto di ogni persona, così come nel volto di ogni donna e di ogni uomo incontro il volto di Cristo.
L’incontro con Cristo, sempre fa rivivere il cuore inaridito, guarisce dalla cecità, apre alla comunione con Dio e all’amicizia sociale