Ricordando il profeta Osea, ai Farisei Gesù dice: «Andate e imparate che cosa vuol dire: misericordia io voglio e non sacrificio» (Mt 9,13). Un richiamo che ritorna con insistenza nel nostro cammino quaresimale.
Ma per comprenderne la vera essenza occorre ricordare anche un’altra affermazione di Gesù: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
Queste parole di Gesù ci dicono che la misericordia, prima di essere un comando, sono la rivelazione di una possibilità: l’uomo può partecipare alla misericordia di Dio.
La possibilità di dare vita, di mostrare tenerezza e amore, di fare grazia, di soffrire con chi soffre, di sentire l’unicità dell’altro e di essergli vicino, di perdonare, di sopportare l’altro e di pazientare con le sue lentezze e le sue inadeguatezze.
La misericordia ha più volti: un conto è essere di fronte alla colpa, che chiede la misericordia del perdono, altro è essere davanti a quei bisogni, come quelli espressi dalle opere di misericordia, descritte nel Catechismo come «azioni caritatevoli con le quali soccorriamo il nostro prossimo nelle sue necessità corporali e spirituali. Istruire, consigliare, consolare, confortare sono opere di misericordia spirituale, come pure perdonare e sopportare con pazienza. Le opere di misericordia corporale consistono segnatamente nel dare da mangiare a chi ha fame, nell’ospitare i senza tetto, nel vestire chi ha bisogno di indumenti, nel visitare gli ammalati e i prigionieri, nel seppellire i morti. Tra queste opere, fare l’elemosina ai poveri è una delle principali testimonianze della carità fraterna: è pure una pratica di giustizia che piace a Dio» (CCC2447)
Queste opere si collocano sempre tra un elemento perenne (l’esigenza e il fondamento divini) e uno mutevole (i differenti bisogni della creatura umana) e vanno vissute ricordando che le opere di misericordia non sostituiscono il dovere di giustizia, dato che prima di tutto si devono soddisfare «gli obblighi di giustizia, perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (CCC 2446)
Proprio nell’orizzonte della misericordia, Papa Francesco colloca lo “stile” (EG 18; 33; 35) che deve caratterizzare «una nuova tappa evangelizzatrice» (EG 17).
Lo “stile” è un modo di essere, di agire, di procedere conforme al vangelo che si annuncia, per non ridursi a fare propaganda a un’Idea, una Teoria, un Principio Morale anziché essere testimoni di una Persona Vivente, Cristo Gesù, che ci ha cambiato la vita.
La gioia di aver riscoperto il Vangelo, cioè Gesù, colui che dona la vita e il senso vero dell’esistenza, spinge la comunità dei credenti e ogni cristiano “ad “uscire”, per andare verso l’altro, verso altri soggetti, culture, popoli, verso le periferie geografiche ed esistenziali: ovvero gli impoveriti, gli scartati, i disperati, i falliti.
Uscire anche e prima di tutto da sé stessi, per abbandonare le proprie certezze frutto di visioni troppo rigide e che generano strutture pesanti che “ingabbiano” Gesù e il suo Vangelo, non permettendo un annuncio autentico, ma soltanto una esposizione dottrinale che non interpella la vita reale.
La “gioia liberante del Vangelo” ci cambia dentro e ci cambia continuamente, facendoci sperimentare la misericordia di Dio, che si china sulla storia degli uomini e, per amore, spalanca (“compassione”) il suo “grembo” per accogliere le sue creature, con i loro fallimenti, e rigenerarle di nuovo, ridando una nuova possibilità di riscatto, per ritornare a vivere e a sperare.
Parlandoci di Dio misericordioso, Gesù ci esorta a diventare misericordiosi come Dio Padre (Lc 6,36; Mt 5,48), «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7).
Gesù parla del volto misericordioso del Padre con i suoi gesti di misericordia e di compassione e con le parabole della misericordia (Lc 15,1-24 e quella del Buon Samaritano, la cui figura è centrale anche nell’enciclica «Fratelli Tutti» di papa Francesco.
«Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il Buon Samaritano» (FT 67).
Il protagonista della parabola ci manifesta la compassione e la tenerezza di Dio, ci dice che la fraternità è la migliore possibilità per crescere e vivere come persone e come società.
Nel racconto del Buon Samaritano, il viandante che scendeva da Gerusalemme a Gerico rappresenta, per noi oggi, l’umanità ferita e le«dense ombre»(Cfr. FT 54 e 72) che gravano su di noi.
Il viandante è la nostra umanità di donne e uomini che subiscono fame, povertà, oppressioni, invasioni, guerre, sequestri, violazioni dei diritti umani, soprusi, umiliazioni, tratta, schiavitù, razzismo, migrazioni, emarginazioni, ingiustizie, divisioni…
Il Buon Samaritano raffigura per noi il modello per sperare e operare in vista di «una fratellanza universale» e di «un’amicizia sociale»; è l’esempio di fraternità e di responsabilità per la condivisione dei beni comuni; è la via per costruire relazioni sociali diverse: «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri; la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro» (FT 57).
Il Buon Samaritano è colui che sa «vedere l’altro» nella necessità perché lo guarda con il cuore e quindi osa amare, è colui che «dona del suo tempo» per farsi prossimo, è colui che «si fa incontro» per prendersi cura del debole indipendentemente dalla sua nazionalità o religione, è colui che si fa «dialogo e relazione» per includere altri nel suo compiere il bene.
Non si tratta solo di slanci di generosità e di buone azioni individuali, ma di un modo di essere che ispira anche la nostra lettura del mondo e il senso relazionale e sociale di ogni nostra azione.
Per questo è richiesto all’intero contesto sociale, da quello della politica a quello dell’economia a rapporto fra le nazioni.
La fraternità è il sogno di un amore che va al di là delle barriere e delle frontiere. Senza la fraternità, la libertà e l’uguaglianza faticano a rivelarsi nel loro splendore. La libertà e l’uguaglianza, valori importanti e per i quali molti ancora lottano, da sole e senza aperture all’altro non riescono a rendere l’uomo felice (Cfr FT 103-114).
La pagina evangelica del Buon Samaritano pone l’accento, fra le altre cose, a una nostra attitudine frequente: l’omissione, cioè la mancanza o il rifiuto di uno sguardo, di una parola, di un gesto, di un sostegno.
Spesso siamo influenzati da una cultura di indifferenza e di esclusione, tante volte siamo incapaci di compassione e siamo lenti nel rispondere a una situazione di sofferenza. «Gesù non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicino a noi, bensì a farci noi vicini, prossimi» (FT 80).
Come per dirci: và, e anche tu fai lo stesso. È per noi importante «la convinzione sull’inalienabile dignità di ogni persona umana e le motivazioni per amare e accogliere tutti» (FT 86).
All’amore e alla misericordia non importa il popolo di appartenenza o la provenienza di un uomo ferito perché è l’«amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; è l’amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […]. Amore che sa di compassione e di dignità» (FT 62).
Trasformare il nostro cuore e il nostro modo di vedere e di operare è la vera conversione a cui siamo chiamati.
Il Samaritano non si chiede chi fosse l’uomo ferito, il suo aiuto è disinteressato, generoso, concreto. Il fratello da aiutare non possiamo definirlo o programmarlo, è semplicemente colui che incontri nelle tue giornate e che talvolta necessita di sostegno.
Si tratta di fare nostri i verbi usati da Gesù: vedere, avere compassione, avvicinarsi, farsi prossimo, fasciare le ferite, versare l’olio e il vino, caricare sul proprio giumento, portare in una locanda, prendersi cura, estrarre due denari.
Il Samaritano, di fronte alla necessità, si lascia commuovere e coinvolgere: ha visto un uomo nel bisogno, se lo è «preso a cuore», ha avuto cura di lui. «Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani e tiriamole a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo» (papa Francesco, Misericordiae Vultus 15).
Abbiamo bisogno di ricostruire la comunità sociale «a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (FT 67).
«Il racconto, diciamolo chiaramente, non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità» (FT 68).
Il Buon Samaritano ci invita a implicarci e a comprometterci per costruire legami sociali, per impegnarci in opere di solidarietà e di prossimità, di sostegno e di fraternità.
La parola chiave della parabola è il cuore dell’enciclica: «Amore». Parola da declinare in ogni luogo e in ogni tempo, in tutte le situazioni e nelle diverse modalità di incontro con l’altro. E la parola «Amore» va unita ad un aggettivo che la rende decisamente concreta: «amore sociale» (Cfr. FT 183).
L’amore sociale è «la forza capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo d’oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici» (FT 183).
L’amore sociale ci permette di progredire verso una civiltà alla quale tutti ci possiamo sentire chiamati. La carità è un amore efficace che, con il suo dinamismo, è capace di creare strade nuove per raggiungere tutti.
«È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano» (FT 78).
Con la sua compassione e con i suoi gesti il Buon Samaritano trasforma il luogo dell’aggressione in un cantiere nel quale costruire una società in cui siamo capaci di «vedere l’altro», di «donargli del tempo», di «dialogare e metterci in relazione», di «farci incontro».
La carità anima queste azioni; una carità che va al di là di una pura dimensione sociologica, che ha sede in un Dio da amare «sopra ogni cosa» e che si manifesta in un Prossimo da amare «come noi stessi».
Non importa se alla maggioranza il progetto, la proposta, per lo sviluppo dell’umanità verso la fratellanza universale può sembrare «un’utopia d’altri tempi … fantasie» perché «riconoscere ogni essere umano come fratello o sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie» (FT 180).
Chi crede in Cristo,«non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo»(FT 190): avere Dio nel cuore e farsi prossimo all’umanità per creare legami di fraternità.
Con la gioia che ci proviene dal Vangelo, dall’aver incontrato il Signore Gesù.