Omelia Badia Fiorentina 13 maggio 2021

Giovedì sesta di Pasqua: At 18,1-8   Sal 97   Gv 16,16-20

Lo scorrere del tempo lo misuriamo in base all’orologio e al calendario, ma anche in relazione al nostro stato d’animo.

C’è un tempo cronologico e un tempo psicologico. C’è un tempo breve e un tempo lungo. Ad esempio, il tempo scorre velocemente quando viviamo momenti felici e, al contrario, sembra non scorrere mai quando siamo nella sofferenza.

Dall’Ultima Cena alla prima apparizione del Signore risorto passano solo tre giorni. Cronologicamente è un tempo brevissimo, ma ai discepoli, sprofondati nella tristezza e nella paura per la cattura, crocifissione e morte di Gesù, probabilmente sarà sembrato un tempo lunghissimo.

«Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete» (Gv 16,16). Un procedere tra momenti buio e momenti di luce è l’inevitabile cammino della fede, come lo è della vita. Ci sono momenti in cui sembra quasi di toccare il mistero e prolungati momenti nei quali Dio sembra assente.

Anche i momenti di buio, però, sono essenziali per maturare nella vita e anche nella fede e nella relazione col Signore, perché aiutano a liberarsi da semplicismi ed astrazioni e impediscono di scivolare in una religiosità edulcorata e intimistica.

«Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). Tristezza e gioia sono presentate da Gesù come due condizioni dell’anima, due diverse esperienze che nascono dalla sua assenza o dalla sua presenza, dall’essere o meno in comunione con Lui.

La gioia di cui parla Gesù non è data dalle circostanze né dalle nostre capacità e dal nostro saper fare, ma dalla coscienza di vivere in compagnia del Risorto. Per essere nella gioia, dunque, è decisivo sperimentare la presenza del Signore.

La fede cristiana è donazione totale a Cristo, ma non richiede affatto estraneità dalla quotidianità della vita e dalla laboriosità tipica dell’uomo.

Ogni pratica religiosa che porta a contemplare solo il cielo, disattendendo totalmente la terra, è alienante. Come il mantenere gli occhi fissi a terra, soffocando ogni visione trascendente, ci espropria della nostra vera identità di persone.

La fede in Cristo coglie la persona nella sua totalità e le dona armonia. La preghiera, quando è vera relazione con Dio, non porta a disattendere gli impegni terreni, ma li fa vivere con responsabilità e preserva da quei criteri del mondo che disumanizzano, assolutizzando l’uno o l’altro aspetto a scapito dell’integralità della persona.

Un quadro di vita ordinaria, in cui l’attenzione per il vivere quotidiano non distoglie ma sostiene la vita di fede e l’annuncio del Vangelo, ci viene presentato dalla prima lettura.

Paolo è uno che, pur arrivando a donarsi totalmente a Cristo, fino ad affermare «per me vivere è Cristo» (Fil 1,21), esercita il mestiere di tessitore di tende, lavorando con due coniugi giudei convertiti al cristianesimo, Aquila e Priscilla, presso i quali si stabilisce giungendo a Corinto.

Il suo lavoro non lo distoglie dalla preghiera e dall’impegno per la diffusione del vangelo, a cui si dedica rivolgendosi primariamente ai giudei e arrivando a costituire la comunità cristiana a Corinto.

Il sabato Paolo frequenta la sinagoga dove annuncia con franchezza Gesù crocifisso e risorto, cercando «di persuadere Giudei e Greci» (At 18,4). La reazione negativa dei giudei, però, lo porta a rivolgersi più apertamente ai pagani, soprattutto dopo che sono arrivati a Corinto Sila e Timoteo.

Il brano che abbiamo ascoltato, infatti, narra che, a un certo punto, dopo le forti opposizioni da parte dei Giudei, Paolo entra «nella casa di un tale, di nome Tizio Giusto, uno che venerava Dio, la cui abitazione era accanto alla sinagoga» (At 18,7)

Il suo entrare nella casa di quest’uomo, proprio accanto alla sinagoga, possiamo considerarlo un gesto provocatorio: Paolo infrange le più rigide prescrizioni ebraiche che ritenevano si contraesse impurità con il varcare la soglia di casa di un pagano.

Ma la fedeltà a Cristo da parte di Paolo, con il conseguente rigetto di pratiche che la croce del Risorto avevano ormai definitivamente superato, porta alla conversione anche «Crispo, capo della sinagoga» (At 18,8).

Riconoscere la sua presenza nella nostra vita, è condizione indispensabile per sperimentare, testimoniare e annunciare la libertà e gioia del Vangelo e per vivere con fedeltà operosa il nostro essere nel mondo.

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