XVI Domenica Tempo Ordinario Anno B: Ger 23,1-6 Sal 22 Ef 2,13-18 Mc 6,30-34
Gli apostoli, dopo la loro prima missione, ritornano da Gesù e gli riferiscono «tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato» (Mc 6,30).
Gesù li accoglie, li ascolta e gli invita a fare un’esperienza di riposo in intimità con lui: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (cfr Mc 6,31).
Riposarsi significa anche rileggere l’esperienza, prendere sempre più coscienza che quello che hanno fatto e insegnato non è avvenuto solo per il loro impegno, ma per l’autorità che Gesù ha dato loro.
L’intimità a cui Gesù chiama i suoi viene descritta da Marco con due espressioni: «in disparte» e «deserto».
Il termine “in disparte” è usato da Marco per le esperienze particolari: quando Gesù spiega ai suoi il significato delle parabole (Mc 4,34), quando porta Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte dove si trasfigura (Mc 9,2), quando i suoi hanno domande che non vogliono fargli davanti a tutti (Mc 9,28; 13,3).
Nella relazione personale e intima fra Gesù e i suoi, questo porsi in “disparte”, diviene spazio di ascolto, di condivisione, di conoscenza reciproca.
Il termine “deserto”, invece, dice che questo stare in disparte non è un relax, ma ambito della lotta, della tentazione: è il luogo che Dio ha scelto perché il suo popolo impari a fidarsi e a condividere.
Il proposito di Gesù di far riposare i discepoli, condividendo una certa intimità con loro, dura soltanto il tempo del viaggio in barca.
Il luogo “in dispare” e “deserto” non è isolato o difficilmente raggiungibile, tanto che la folla vi giunge prima del loro arrivo (Mc 6,33).
Questa mi pare un’indicazione preziosissima: è possibile stare soli con Gesù nello spazio fra un incontro e l’altro, una missione e l’altra.
La folla in attesa del loro arrivo, che sembra impedire l’intenzione di riposarsi, chiarisce subito che il ritorno di Dodici dalla missione non significa affatto che la missione sia finita e che non c’è nessuna possibilità di pausa se veniamo avvicinati da qualcuno che ha bisogno.
La grande folla che Gesù si trova davanti, gli appare come tante pecore esposte alla voracità di “predatori” di varia natura. Anche predatori delle coscienze, come possono essere quei pastori che, guardano a sé stessi e fanno «perire e disperdono il gregge» (Ger 23,1).
La potenza delle immagini usate da Geremia parla più di tanti discorsi. Il Signore suscita pastori per nutrire, proteggere e radunare il gregge. Un gregge radunato, che vive la relazione comunitaria, può sfuggire alla voracità di qualsiasi predatore.
Il primo e vero pastore, che raduna il suo gregge, è proprio Gesù: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34).
Siamo abituati a pensare che l’insegnamento sia fatto di parole e continuiamo a moltiplicare parole, iniziando dal catechismo. Ma i fatti sono più eloquenti delle parole. E la condivisione di un’esperienza segna la vita più delle parole.
Gesù, prima che con le parole, insegna proprio coi fatti. Cambiando i propri programmi, insegna il criterio per compiere le proprie scelte, anche quando si tratta di scegliere fra due cose buone, come andare in disparte coi Dodici o fermarsi a parlare alla folla.
Gesù non guarda la folla con lo sguardo di un sociologo o di un fotoreporter, ma con gli occhi del cuore. Vede, prova compassione, insegna. Il criterio che muove la sua scelta è proprio la compassione.
Una scelta che diventa esperienza formativa per gli apostoli: il criterio chiave è radunare le pecore disperse, costruire relazione comunitaria.
Questo ci porta dire che Gesù lo si incontra in verità solo quando guardiamo con il suo stesso sguardo e condividiamo la sensibilità del suo cuore; quando coltiviamo la relazione con lui e, abbattendo ogni muro di separazione (cfr Ef 2,14), costruiamo relazioni comunitarie.