VI Domenica Tempo Ordinario Anno C: Ger 17,5-8 Sal 1 1Cor 15,12.16-20 Lc 6,17.20-26
Come tutta la realtà, la nostra vita è caratterizzata dalla complessità. Sono possibili interpretazioni diverse. Sono pensabili opzioni anche contrastanti. Per questo spesso indugiamo nelle decisioni, rischiando che sia la vita a scegliere per noi.
La responsabilità della nostra vita è nelle nostre mani: possiamo, vogliamo e dobbiamo essere noi a scegliere quale strada prendere.
E dobbiamo farlo avendo cura di formare la nostra coscienza e di raccogliere le informazioni necessarie per meglio valutare la scelta che dobbiamo compiere, ma anche tenendo conto di quel che vogliamo fare della nostra vita, di come pensiamo il nostro essere nel mondo e il nostro rapporto con gli altri, ossia la nostra collocazione nella complessa rete di relazioni di cui facciamo parte.
Già Parmenide, vissuto circa 2700 anni fa, nel suo poema Sulla natura, scrive di trovarsi davanti a due strade: la via dell’opinione, che porta verso la superficialità ingannevole; la via della verità, che conduce alla pienezza della vita intellettiva.
Quella dell’opinione, anche se oggi sembra influire molto sul nostro pensare e sul nostro sentire, non è certamente la via che può portarci verso una vita pienamente realizzata. Non è però è sufficiente neppure la sola via intellettiva, perché siamo ben di più del solo intelletto.
Tutta il nostro essere tende alla ricerca della felicità. Siamo simili a un albero che cerca acqua, come descritto da Geremia nella bellissima immagine presentata nella prima lettura (Ger 17,8).
La sete di felicità a volte ci porta a cercare l’acqua dove non c’è, a sostare accanto a pozzi avvelenati o a confidare in chi ci fa vedere un secchio pieno promettendo un’acqua che non ci sarà mai data, perché non ce l’ha.
Nel brano del vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù incontra il nostro profondo desiderio di felicità e indica la strada ai suoi discepoli: «C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente…alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: beati….guai..» (Lc 6,17).
Dalla frase introduttiva, prima ancora del contenuto dell’annuncio, mi pare che emerga una precisa fisionomia di Chiesa, che ci chiama alle nostre responsabilità: i discepoli sono descritti come una comunità che vive tra l’ascolto della parola di Dio e la folla a cui è inviata.
Ed è proprio guardando verso i suoi discepoli che Gesù pronuncia parole importanti e definitive, che a una prima lettura possono suonare come minacciose, ma che in verità ci dicono dove possiamo trovare l’acqua a cui attingere per saziare la nostra sete di felicità.
Quando le parole di Gesù illuminano la nostra vita, anche se le cose rimangono le stesse, cambia il nostro sguardo, la nostra prospettiva, il nostro modo di percepire le cose e di viverle.
Gesù annuncia sempre l’amore e la misericordia del Padre. In quest’occasione lo fa indicando come fonte di beatitudine/felicità la condizione di coloro che sperimentano un vuoto, una mancanza, un’assenza.
Queste solenni affermazioni di Gesù invertono la scala dei criteri e dei valori abituali, sostenuta dall’opinione comune, ma non annunciano un imminente capovolgimento delle situazioni, dicendo, ad esempio, che i poveri diventeranno ricchi.
Il senso delle beatitudini diventa ancora più chiaro alla luce della seconda parte del discorso di Gesù, che presenta come fonte di guai le condizioni dei ricchi, dei sazi, di quelli che ridono e trovano consenso mondano.
Quando si pensa di bastare a noi stessi, ci sentiamo forti ed autosufficienti: il nostro io occupa tutto lo spazio e escludiamo Dio e gli altri dall’orizzonte della nostra vita.
Quando si vive appagati della situazione in cui ci troviamo, non ci rendiamo conto che questa condizione è instabile e ingannevole: sterilizziamo di fatto la nostra dimensione sociale e trascendente e piano piano diventiamo come tamerischi nella steppa, per usare l’immagine di Geremia (Ger 17,6).
Gesù posa lo sguardo sui suoi discepoli, anche su di noi, per illuminare la realtà e guidare alla verità. Indica il primato dei poveri nell’annuncio del Regno; dichiara la scelta di Dio di stare accanto a chi fa più fatica, piange, ha fame, è disprezzato; ricorda che siamo chiamati ad asciugare lacrime, a consolare e a costruire.
Dio si fa compagno di persone in cammino: verso la terra promessa, verso terra nuova e cieli nuovi, verso un altro modo di essere liberi, cittadini di un regno che, insieme, è presente e viene. Persone che sentono il proprio bisogno e che sanno andare oltre sé stesse. Persone aperte agli altri e all’eternità.
Mantenere il nostro sguardo rivolto solo alla terra, al qui e ora, non è solo un errore di prospettiva e un impoverimento di quello che siamo, ma è anche una letale sterilizzazione della nostra fede, come chiaramente afferma l’apostolo Paolo: «Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (12 Cor 15,19).