Omelia Badia Fiorentina 9 febbraio 2022

Mercoledì della V settimana: 1Re 10,1-10   Sal 36   Mc 7,14-23

Quel che noi diremmo a chi non sa tenere a freno la lingua, “prima di parlare conta fino a dieci”, il salmo che abbiamo pregato lo dice con ben altra profondità: «la bocca del giusto medita la sapienza» (Sal 37,30).

Potremmo anche aggiungere che «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7). È doveroso il tempo del silenzio, per ascoltare e riflettere alla luce della parola di Dio e dell’esperienza. Ed è altrettanto doveroso il tempo della parola, per esprimere quanto maturato nel discernimento.

È bene aprire la bocca solo dopo aver passato dal vaglio del pensiero quello che sale dal cuore, perché un cuore inquinato matura intenzioni cattive e azioni malvage, come afferma chiaramente Gesù: «dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc, 7,21-22).

Le cose che avvengono fuori di noi, comprese le molteplici sollecitazioni che ci arrivano, hanno una certa influenza, ma è dall’intimo che scaturiscono le nostre intenzioni, le nostre parole e le nostre azioni, quelle buone e quelle cattive, come ci insegna lo stesso Gesù: «Non c’è nulla fuori dall’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro» (Mc 7,15).

Pertanto, occorre educare il cuore, vigilando su di esso e nutrendolo bene. Un cibo ben cucinato, gustoso, può anche portare a lodare il Signore, ma se questo cibo diventa lo scopo da raggiungere, il rischio è quello di vendersi, come nel caso delle lenticchie di Esaù (cfr  Gen 25,29-32).

La sapienza che proviene dal vangelo, come quella chiesta da Salomone e ammirata dalla regina di Saba, ci dice che tutto deve essere collocato nell’orizzonte dell’amore di Dio, che vuole il bene nostro e del nostro prossimo.

Come ascoltiamo nel vangelo che la liturgia ci propone in questi giorni, Gesù non mette in discussione la validità della legge, ma contesta la sua assolutizzazione, perché non può «dare la vita» (Gal 3,21). Soprattutto contesta quelle tradizioni che falsificano e sostituiscono il comandamento di Dio, nell’illusoria presunzione di potersi sentire a posto seguendo scrupolosamente norme e precetti creati dagli uomini pensando di soddisfare Dio, se non addirittura di “conquistarlo”.

Per non fermarsi alla lettera della legge e tenere conto delle situazioni storiche, di quelle personali e di quelle comunitarie, occorre sempre ricordare che la legge è data da Dio per il bene della persona e della comunità.

Riferirsi all’origine della legge, che è Dio, e alla finalità, cioè al bene della persona e della comunità, è essenziale per valutare norme e precetti e per educare il nostro cuore, per verificare la vera radice delle intenzioni e delle azioni, per non svuotare di senso la legge assolutizzando la forma o lo spirito.

Il rapporto tra legge e spirito, tra obbedienza e libertà, tra istituzione e carisma, è una questione su cui, oltre che per il mio vissuto, mi sono spesso confrontato, quando ho svolto il servizio di confessore in cattedrale, ascoltando certe confessioni di religiose e religiosi, dalle quali è emersa chiaramente la presenza di tensioni non risolte, né come persona né come comunità.

Nei giorni scorsi ho letto un meditato e attuale contributo sull’argomento che, pur focalizzato sulla vita delle comunità religiose, penso rivesta un valore più generale. Si tratta del libro firmato dal priore della Grande Certosa e superiore generale dell’Ordine dei Certosini, Dysmas de Lassus, di recente tradotto e pubblicato in italiano col titolo Schiacciare l’anima. Gli abusi spirituali nella vita religiosa (EDB 2021).

Mi permetto citare due passaggi. «La legge, se adattata, è al servizio del carisma, e il carisma dà senso alla legge. Da qui possono nascere due deviazioni possibili: prima il legalismo, che pone il suo sforzo nell’applicazione della legge indipendentemente dal suo significato, che si accontenta di una lettura senza spirito. L’altro errore non ha nome. Esso ritiene che lo spirito esoneri dalla lettera e quindi dalla legge. Ma di quale spirito si tratta? Lo Spirito Santo, lo spirito dell’uomo – la volontà propria – o lo spirito dell’Avversario?» (pag 65-66).

Come la società, anche ogni comunità religiosa «ha bisogno di un sistema immunitario che abbia due facce, l’una istituzionale: la regola, il diritto canonico, i capitoli, le visite, i consigli, ecc.; l’altra interiore, nella quale bisognerebbe citare per primi i doni dello Spirito Santo e poi l’umiltà, il senso del servizio, l’attenzione agli altri e tante altre virtù che contrastano questa tendenza naturale all’egocentrismo che mina dall’interno tutto il corpo sociale» (pag 283).

Mi pare che queste riflessioni rimandino a una realtà essenziale: la Parola e l’amore di Dio per noi e il nostro amore e la nostra fedeltà a Dio e ai fratelli e alle sorelle, fondano la nostra libertà, sostengono la nostra responsabilità, misurano la verità del nostro cuore e salvaguardano dai rischi e dalle derive, personali e comunitarie, che un errato rapporto con la legge e la nostra soggettività può produrre.

Per trovare il coraggio della verità di noi stessi e per liberare il nostro rapporto con Dio e con gli altri da ogni tipo di ipocrisia, invochiamo come Salomone il dono della sapienza e purifichiamo, nutriamo e educhiamo il nostro cuore con la parola di Dio.

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