VIII Domenica Tempo Ordinario Anno C: Sir 27,5-8 Sal 91 1Cor 15,54-58 Lc 6,39-45
La liturgia di oggi ci invita a prestare attenzione alle nostre parole, perché ogni persona si rivela attraverso le parole che pronuncia e che pensa.
«Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini» (Sir 27,8) ammonisce il Siracice. E Gesù rilancia dicendo che la bocca dell’uomo «esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (Lc 6,45).
Tutto quello che è conservato o disperso dentro di noi prima o poi torna in superfice e si rivela, sia ciò che è buono sia ciò che è meno buono.
La nostra bocca, le nostre azioni, manifestano quello che abbiamo nel cuore. I nostri gesti, i nostri discorsi, il nostro comportamento non sono casuali: nascono da quello che è seminato dentro di noi.
Un‘interiorità nutrita male o non curata può apparire come una camera in disordine, dove diventa difficile identificare quello che c’è e cercare quello che ci serve. E nella confusione il male si annida facilmente, per confonderci e rendere complessa la ricerca di un senso compiuto di quel che pensiamo e facciamo.
Se ignoriamo quello che c’è nel nostro cuore, non viviamo neppure l’esperienza della grazia. Non saper leggere il proprio cuore ci porta a ridurre tutto alle emozioni e ai criteri culturali del momento.
Come insegna il libro del Siracide, la nostra esistenza è come quel setaccio e piano piano ci porta a scoprire quello che ci portiamo dentro: «Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti» (Sir 27,4).
È necessario custodire il nostro cuore, per non diventare ciechi, che hanno la pretesa di saper giudicare e perfino di guidare gli altri, ma sono incapaci di guardare dentro sé stessi.
Guide cieche, per Gesù, erano i farisei, gli scribi, i sommi sacerdoti, che vivevano rispettando in un modo assoluto la legge mosaica, ma che, così facendo, avevano perso la ricchezza di un rapporto vivo col Dio biblico: un Dio solidale, che cammina con le persone adattando il suo passo e le sue parole al loro ritmo, alle loro capacità, alla loro debolezza.
Guide cieche, oggi, possono essere quelle persone che non lasciano spazio alla parola di Dio e ai cambiamenti che questa parola chiede e provoca, perché si riempiono di pratiche religiose, pensando che la costanza e la ripetitività di queste pratiche siano sinonimo di fedeltà.
Guide cieche possono essere quei preti, quegli educatori e quelle comunità che seguono il consenso della gente, offrendo quello che le persone chiedono e abbassando continuamente la qualità della proposta, anche se allontana dal vangelo e non aiuta la crescita umana.
Guide cieche possono essere quelle famiglie che si limitano al bene generico dei figli, offrendo loro solo cose, anziché vivere e trasmettere quei valori che fortificato e che rendono i figli capaci di crescere e di affrontare la vita con un positivo protagonismo.
Si è ciechi, comunque, ogni volta che tutto si riduce a pratiche, a rispetto di norme, a cose da fare, mentre Gesù testimonia, annuncia e chiede uno stile di vita e un atteggiamento radicalmente diverso, fondato, illuminato e orientato dalla sua parola e, principalmente, sulla realtà della risurrezione.
Si è ciechi ogni volta che orientiamo lo sguardo in una direzione diversa da quella della Pasqua; ogni volta che distogliamo lo sguardo dal mistero della vita; ogni volta che guardiamo e giudichiamo ciò che è bene e ciò che male coi criteri del mondo.
Il primo passo, pertanto, è quello di convertire lo sguardo orientandolo a Cristo, tenendolo fisso su di lui.
Allora vedremo con chiarezza che al centro dell’annuncio cristiano, così come al centro della preghiera liturgica, c’è la vita nuova in Cristo, non il protagonismo della nostra religiosità e la correttezza del nostro agire morale.
Lo specifico cristiano non è la fedeltà ai riti religiosi, che può averla anche chi ha una fede diversa, o il buon comportamento, che può essere condiviso e praticato anche da chi non è cristiano, ma la fede nella risurrezione di Cristo, la fede nella vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte.
Assumendo un nuovo sguardo, renderemo «grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Cor 15,57) con l’intera nostra esistenza e sapremo anche guardare alle vicende della vita e della storia con lo sguardo solidale di Cristo.
Guardare con lo sguardo di Cristo, ci porta anche a renderci intercessori nei confronti del Padre, come ci ha invitato a fare il giorno delle Ceneri Papa Francesco per la guerra in Ucraina.
Intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”. Intercedere, etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione.
Intercedere, quindi, non significa solo invocare il Signore perché conceda la pace, rimanendo al riparo senza rischiare nulla.
Si tratta, invece, di “mettersi in mezzo”, con la preghiera e il digiuno, perché il Padre tocchi le coscienze di coloro che possono fermare la guerra, e con il nostro impegno di cittadini, rendendo fattiva la nostra vicinanza alle popolazioni colpite e contribuendo a cambiare le condizioni sociali, culturali e politiche a favore del dialogo e della pace. Iniziando dai nostri ambienti di vita e di lavoro e dalle quotidiane relazioni sociali.