Seconda domenica di Pasqua: At 5,12-16 Sal 117 Ap 1,9-11.12-13.17-19 Gv 20,19-31
La paura è una costante dell’esistenza. Può aiutare a evitare certi pericoli, ma può anche paralizzare e far perdere la memoria di quanto di bello e di buono abbiamo sperimentato e che abita la nostra vita.
Per questo la storia di ogni incontro col Signore, di ogni “vocazione”, è disseminata da innumerevoli «non temere», che Dio pronuncia per infondere fiducia e assicurare il suo sostegno.
Il timore prende anche quei discepoli che Gesù ha chiamato «amici» (Gv 15, 15) e sui quali ha riversato il suo amore (cfr. Gv 13, 1; 15, 9.12.13). Dopo la Pasqua, infatti, si rintanano in casa «per timore dei Giudei» (Gv 20, 19). Se ne stanno nascosti, a porte chiuse, forse perché dopo la morte di Gesù temono ritorsioni.
Del resto, quando siamo delusi, feriti o arrabbiati, facciamo fatica vedere a la realtà con occhi lucidi, a intercettare una possibilità, anche se evidente, e a coltivare la speranza.
Con realismo e verità, gli evangelisti non nascondono la paura, la delusione e neppure la difficoltà degli apostoli a credere nella risurrezione.
Tutti i racconti che parlano della risurrezione, infatti, rivelano che i discepoli fanno fatica a credere, a convincersi che Gesù sia davvero risorto.
Questi racconti mettono in evidenza che il passaggio dall’incredulità al tentativo di diventare credenti, ha bisogno di una ricerca, di un cammino personale e comunitario.
Un cammino cosparso di dubbi, domande, incertezze e pieno di contraddizioni, che ciascuno di noi è chiamato a fare, come i discepoli di ogni tempo.
Maria di Magdala ha incontrato il Signore risorto; Pietro e Giovanni hanno visto la tomba vuota e i teli piegati; si rincorrono le voci a conferma che si sono avverate le parole dette da Gesù, che sarebbe risuscitato dopo tre giorni. Ma i discepoli stanno ancora a porte chiuse per timore dei Giudei.
Gesù risorto, come abbiamo ascoltato, non si limita a una fugace apparizione, ma viene e sta in mezzo a loro. Mostra le ferite della crocifissione, dona la pace, lo Spirito, la forza per perdonare i peccati.
Otto giorni dopo, però, quando viene di nuovo per rispondere alle richieste di Tommaso, trova ancora le porte chiuse e coloro che, a nome del Padre, ha mandato con la sua stessa missione, non sono ancora usciti fuori.
Tommaso è erroneamente conosciuto come l’incredulo, come colui che pone resistenza al Signore, ma non è così.
È vero che Tommaso non crede alla testimonianza degli altri apostoli che gli dicono: «Abbiamo visto il Signore!» (Gv 20, 25). C’è, però, da porsi una domanda: perché avrebbe dovuto credere che i suoi compagni hanno incontrato Gesù Risorto se li vede ancora pieni di paura e con le porte chiuse?
E poi, a differenza degli altri, di fronte al Signore risorto, Tommaso non si limita a gioire perché lo vede vivo, ma fa la più alta professione di fede presente nel vangelo: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20, 28).
Tommaso non vede solo vivo Colui che è stato Crocifisso, ma nel Crocifisso risorto vede Dio stesso.
Gesù rispetta la fatica e i dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del credere. Continuamente si ripropone, rivolgendosi a ciascuno personalmente come ha fatto con Tommaso.
L’esperienza di Tommaso ci dice che è difficile pretendere che gli altri credano nella presenza del Risorto in mezzo a noi, quando noi siamo incapaci di testimoniare la pace, la gioia e il perdono, doni del Risorto e segni della presenza di Dio.
Accogliere il dono della pace e del perdono non è cosa scontata. La pace impegna al perdono e il perdono dona pace. Un cuore e una comunità che non sono capaci di perdono, sono anzitutto un cuore e una comunità che in sé stessi non trovano né pace né perdono.
I racconti di Pasqua diventano un invito a verificare in quali condizioni si trova il nostro cuore e la nostra comunità; come sono le porte del nostro cenacolo e se siamo capaci di uscire per permettere all’uomo contemporaneo di fare l’esperienza di Cristo attraverso la nostra vita, personale e comunitaria.
Non dobbiamo, però, scoraggiarci se la gioia della Pasqua non sempre riempie il nostro cuore; se le porte che abbiamo aperto alla luce del Risorto si richiudono spesso.
Il Risorto non si arrende alle nostre debolezze, non smette di amare ciascuno di noi e di offrire pace e perdono.
Gesù torna e ritorna per rompere le chiusure, mostrare i segni del suo amore, sostenere la fede di chi lo cerca con cuore sincero, facendo i conti con le proprie debolezze.
Quando si ama si crede: ci si apre alla relazione con fiducia. Ecco perché sono beati, cioè felici, coloro che credono, perché amano; coloro che amando credono.