Giovedì della tretatreesima settimana – Santa Elisabetta di Ungheria: Ap 5,1-10 Sal 149 Lc 19,41-44
«Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa» (Lc 19,41). La tradizione cristiana antica ha voluto segnare e fissare il luogo di questo pianto con la chiesetta del Dominus flevit, sul monte degli Ulivi.
Chi è stato in Terra Santa sa bene che da questo piccolo santuario c’è una delle viste più suggestive sulla città di Gerusalemme, a partire dalla “Spianata del tempio” con le sue moschee.
Gesù, invece, avrà avuto davanti a sé l’imponenza del tempio in tutto il suo splendore, con intorno un groviglio di case, viottoli, scale e, sicuramente, bambini, donne e uomini in movimento. Il suo sguardo, però, va oltre: vede una città ripiegata su sé stessa, sorda a ogni parola che tende a smuoverla per farle evitare la potenza distruttrice del male.
«Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!» (Lc 19,41). Sarai distrutta «perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,44).
Le parole che Gesù rivolge a Gerusalemme non sono minacce. Dio è misericordioso e perdona (cfr Es 34,6-7; Sal 86,15; 103,8; Gio 4,2; ecc.). Le sue parole sono piuttosto una constatazione sofferta del male che il popolo, con il proprio atteggiamento, sta facendo a sé stesso.
Con le sue lacrime, Gesù esprime la sofferenza e, potremmo dire l’impotenza, davanti a un atteggiamento che porta alla caduta e alla rovina di molti, ma rivela pure la passione e la potenza di un amore che, anche di fronte all’infedeltà, rimane fedele, fino «alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8).
La chiusura nelle proprie certezze e la sordità alla parola di Dio che ci raggiunge, non è un dramma che riguarda solo gli abitanti di Gerusalemme in un preciso momento storico.
Riguarda anche noi, perché il Signore bussa costantemente alla porta di tutti, di ogni donna e di ogni uomo in ogni momento.
Ognuno di noi deve guardare a quello che passa nel proprio cuore, per verificare se e quanto è ripiegato su sé stesso, se sente il bisogno di una parola che lo raggiunga, che lo provochi per liberarlo da schemi predefiniti che gli impediscono di aprirsi ad accogliere il “mistero”.
Il brano del libro dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato, è collocato in un contesto liturgico domenicale e, parlando di un altro pianto, ci mette proprio davanti al mistero di Dio e davanti al mistero che noi stessi siamo.
Il pianto di Giovanni esprime il desiderio di comprendere e l’impotenza di poterlo fare. La finitezza di ogni creatura impedisce a chiunque di accedere da solo al mistero: «nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra, era in grado di aprire il libro e di guardarlo» (Ap 5,3).
Non ci sono allenamenti, strategie o tecniche spirituali che possono renderci capaci di fare da soli. Da soli non si può sopravvivere e, soprattutto, non si può vivere e tanto meno non si può “conquistare” la pienezza della vita.
Ma Dio non ci lascia soli, in balia di noi stessi. «Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli» (Ap 5,5). In Cristo, Parola che salva, il mistero si svela e ci raggiunge.
Giovanni introduce tutte le sue visioni con una frase significativa: io Giovanni vidi. E realizza con fedeltà il compito che gli è stato affidato: guardare e scrivere.
A noi è concesso il dono di ascoltare. Possiamo sentire come rivolte a noi stessi le parole di Gesù su Gerusalemme e chiedere allo stesso Gesù la grazia di riconoscere il tempo in cui siamo e saremo visitati, di saperci aprire all’amore che ci viene donato, di rispondere alla chiamata che il Signore ci fa nelle varie fasi della nostra vita.
Prendiamo esempio da Santa Elisabetta d’Ungheria, di cui oggi facciamo memoria. Nella sua breve vita (1207 – 1231), in relazione alle situazioni e alle vicende, Elisabetta ha risposto in modo sempre nuovo alla chiamata del Signore, fino ad arrivare, dopo la morte del marito, a consacrarsi interamente alla penitenza, alla preghiera e alla carità e a fondare l’ospedale di Marburg, in cui lei stessa accudiva i malati.
Il Signore ci conceda di non dare mai niente per acquisito, neppure la nostra risposta alla sua chiamata.