«Vi annunciamo ciò che abbiamo veduto» (1GV 1,3) Meditazione 16 gennaio 2023.

Verso la Giornmata della Parola di Dio

«Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1GV 1,1-4).

La prima sensazione che proviamo ascoltando queste parole, che fanno da prologo alla 1 lettera di Giovanni, è quella di essere raggiunti dalla voce corale piena di entusiasmo, frutto di un’esperienza che ha trasformato la vita di chi l’ha vissuta.

Sono passati poco meno di cinquant’anni da quando Giovanni ha visto e vissuto con Gesù, ma il tenore della lettera ci dice che il tempo non ha sminuito la forza coinvolgente di quella avventura e che lo stupore originario non si è spento.

La forza di questa esperienza, tramite la testimonianza di Giovanni e degli altri discepoli, giunge fino a noi, che nell’oggi concreto della nostra storia siamo interpellati personalmente e comunitariamente dallo stesso Cristo e dal suo vangelo.

Lo scopo di questa prima lettera di Giovanni non è immediatamente missionario. L’autore non si rivolge in prima istanza a persone non cristiane per convincerle a credere in Gesù Cristo, ma si rivolge a cristiani che rischiano di smarrire il fondamento e il legame con le origini della loro fede.

La comunione di cui parla la lettera si realizza rinsaldando quei legami decisivi che danno forma alla vita del discepolo.

La lettera offre dei criteri per verificare l’autenticità della propria esperienza religiosa e della comunione con Dio, che non è ricercata e mantenuta attraverso la consegna e l’attuazione di mille prescrizioni tendenti a omologare. Ma è annunciata come possibilità di grazia offerta a chi è raggiunto dal vangelo di «Quello che era da principio» (1Gv 1,1).  La Parola della vita che si è manifestata corporalmente nella persona di Gesù.

La verità si è incarnata, la vita eterna che era presso il Padre è stata manifestata. Giovanni parla di qualcosa che conosce molto bene. È un testimone, ha conosciuto Gesù e il suo desiderio è quello di annunziarlo a tutti.

Giovanni vuole che le sue parole di testimone oculare ravvivino la fede e rendano più forte e completa la loro comunione tra di loro e con Dio.

Giovanni svolgeva il suo ministero in un contesto in cui stavano nascendo delle false visioni del cristianesimo, sia a livello di dottrina sia a livello di pratica, e comprendeva bene la necessità di restare agganciate alla fonte, di rimanere fedeli al messaggio originale, di mantenere la speranza e di vivere con coerenza la fede delle origini.

A volte anche la pratica religiosa e le stesse nostre iniziative rischiano di dare per scontato Gesù e il suo vangelo, tanto che non sentiamo il bisogno di rigenerarsi in lui.

Un primo riscontro evidente è dato dai nostri percorsi di catechismo e di catechesi, dove c’è anche tanto impegno, senza però riuscire a creare le condizioni favorevoli perché Gesù tocchi esistenzialmente la vita.

Un altro eclatante riscontro lo abbiamo quando le devozioni sembrano non respirare “aria di vangelo” e si ripiegano su un sentimento religioso vago, ingenuo, a volte anche mosso da scrupoli e da paure soffocanti.

La realtà ecclesiale per la quale è stata scritta la lettera, pur con le inevitabili e sostanziali differenze, ha delle affinità con la nostra. Molte delle persone che bussano alle porte delle chiese, come molte persone e gruppi all’interno dei recinti delle nostre parrocchie, sembrano aver smarrito il riferimento a Cristo e, con esso, anche il senso e la freschezza dell’appartenenza ad una comunità di fede.

La vita eterna di cui parla la lettera, non viene da un sistema di pensiero, da una dottrina, da un’idea, dalla realizzazione di un buon progetto, ma dall’incontro con «Quello che era da principio» (1Gv 1,1).

Un’esperienza religiosa che non apre a nuovi orizzonti e, soprattutto, che non dà vita nuova, non serve. Soprattutto non conduce a Cristo. Allo stesso modo, una professione di fede non supportata da una vita che dimostra l’autenticità di quello che professiamo, è debole e, soprattutto, non è credibile.

È importante comprendere in che cosa consiste la vita che Dio dona a tutti coloro che credono “nel nome del Figlio suo, Gesù Cristo” (1Gv 3:23).

Il modo più comune di definire la vita, sia nel Vangelo che nelle lettere di Giovanni, è «vita eterna» (Gv 3:16, 36; 1Gv 5:11, 13). Se l’aggettivo “eterna” garantisce la durata, l’insieme delle due parole, vita eterna, parla della natura di questa vita.

Gesù la definisce con chiarezza durante l’ultima cena: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17:3).

Si tratta di una relazione personale con il Padre e con il Figlio, resa possibile dal sacrificio di Cristo, che purifica da ogni peccato, e dalla presenza nel credente dello Spirito Santo (1 Gv 1,9; 3,24).

Dicendo vita eterna si intendere una vita vissuta in relazione con Dio, come viene confermato da Gesù, nella stessa preghiera dell’ultima cena, quando esprime al Padre il desiderio che anche coloro che crederanno in lui per la parola degli apostoli «siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa … e contemplino la mia gloria» (cfr Gv 17,20-24).

Praticamente, avere vita eterna significa vivere in comunione con Dio e con i fratelli di fede. Vivere in comunione non significa essere esenti da incomprensioni e conflitti, ma sapere che la sorgente della comunione e Cristo e che siamo chiamati a relazionarci, pur nelle tensioni, senza mai mettere un muro

Una volta compreso che quella che merita il nome di “vita” è senza limiti, senza diminuzione, piena, completa, vissuta in comunione con Dio e coi fratelli, non c’è più bisogno di qualificarla con l’aggettivo come “eterna”, perché chi si trova fuori della sfera della comunione con Dio e con i fratelli dimora nella morte. Ecco perché diverse volte Giovanni stesso si limita a chiamarla semplicemente “vita” senza nessuna specificazione (Gv 20,31; 1Gv 5,12).

«Quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1Gv 1,3). Con queste parole Giovanni rende partecipi dell’esperienza di Cristo coloro che non sono stati testimoni oculari.

Se chi ascolta accoglie la testimonianza entra in comunione con chi annuncia. E attraverso questa comunione con gli apostoli, entra in comunione con Dio.

Essere cristiani è vivere in comunione con Dio e vivere in comunione fraterna. È la comunione con la vita divina; della vita di Dio nel cuore dell’uomo.

Vedere, udire e toccare è un’esperienza conclusa, ma continua nel tempo la comprensione a cui hanno portato, la certezza e la vita che ne sono scaturiti.

«Quello che era da principio» (1Gv 1,1) non è il nudo accadimento, ma l’accadimento toccato, veduto e compreso da un noi corale che viene testimoniato e trasmesso.

Testimoniare e trasmettere esprimono l’oggi della comunità, il cui compito non è più vedere e toccare con le mani bensì annunciare fedelmente. È ascoltare e vivere di ciò che è stato visto con gli occhi e toccato con le mani.

La grandezza del messaggio di Giovanni è chiara: la vita si è manifestata; non siamo stati noi a raggiungerla, è la vita che ci ha raggiunto.

Non è possibile l’esperienza della comunione senza cogliere questa “coralità” di voci che insieme ci permette di attingere alla sorgente. Questa coralità è la chiesa che si realizza in un rapporto vitale tra persone e che non potrà mai essere sostituita da un rapporto intimistico col Signore, né da nessuna buona azione.

Uno degli ostacoli più grossi nella vita di fede è l’abitudine. Quando le cose diventano routine, anche le più belle, a forza di essere ripetute, diventano banali. Allora c’è bisogno di andare alla sorgente per recuperare la bellezza e la grandezza attraverso lo stupore, la meraviglia. E la gioia sarà perfetta (cfr Gv 15,11).

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