Giovedì della seconda settimana di Quaresima: Ger 17,5-10 Sal 1 Lc 16,19-31
Riesce difficile immaginare che qualcuno possa, deliberatamente, orientare i propri passi verso uno scenario di morte e dove la solitudine è la condizione ordinaria. Appare addirittura assurdo pensare che una persona possa decidere di volersi sterile come un albero nel deserto.
La sterilità, la solitudine e la morte, pur non cercati, possono essere la conseguenza di un errato modo di pensare e di vivere, come abbiamo ascoltato dal profeta Geremia nella prima lettura: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene» (Ger 17,5-6).
Consapevole che «niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce» (Ger 17,9), il profeta denuncia quella eccessiva concentrazione su di sé e sulle proprie forze, che di fatto conduce il cammino di persone e popoli «in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere» (Ger 17,6).
Il chiaro ammonimento del profeta Geremia è attualissimo anche per noi, che viviamo inseriti in un orizzonte culturale ossessivamente centrato sull’individuo e su un materialismo che oggi prende anche le forme di una tecnocrazia spesso devastante per i legami e le relazioni interpersonali e sociali.
Il grande inganno, che fin dall’origine sembra dimorare nel cuore di ogni essere umano, è dato dal pensare di poter confidare solo in sé stessi; dal coltivare il sogno di una realizzazione solo umana.
Il fallimento esistenziale che comporta il confidare solo in sé stessi, chiusi in un individualismo ingannevole e cieco, viene bene espresso dal brano del vangelo.
La parabola del ricco e del povero Lazaro è una di quelle pagine che ci aiutano a rimanere umani, a conservare quel tratto vitale che ci rende capaci di camminare insieme verso una meta comune, dando consistenza e verità alla prossimità e liberandoci dal rischio di scivolare nella mediocrità e nell’indifferenza.
L’uomo ricco e senza nome, di cui parla la parabola, non viene descritto come malvagio. Non si dice che abbia maltrattato il povero Lazzaro o lo abbia umiliato, ferito o cacciato: semplicemente non lo ha visto.
Chiuso nel suo piccolo mondo è divenuto indifferente a quanto avviene attorno a lui: vive e si muove come in una bolla, con i suoi vestiti di lusso e i suoi banchetti.
Il riflettore del linguaggio della parabola è puntato proprio su quella indifferenza in cui sprofondiamo quando ci barrichiamo nelle nostre sicurezze, nel nostro benessere, nel nostro piccolo o grande ambito di vita.
Non è necessario essere ricchi per chiuderci in noi stessi. Si può vivere chiusi in una pericolosa autoreferenzialità anche in ambiti che per loro natura dovrebbero essere aperti e interattivi come una famiglia, una parrocchia, una comunità religiosa, un’associazione.
È sempre un grande rischio illudersi di poter evitare di aprire la porta a nuove e diverse relazioni; pensare che si possano evitare gli influssi delle nuove generazioni in nome di una presunta cristallizzazione della fedeltà.
Nella storia di quest’uomo senza nome sono assenti tre gesti umanissimi: vedere, fermarsi, toccare. Gesti che, invece, segnano le prime tre azioni del Buon Samaritano.
«Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia» (Ger 17,7). Una persona o un ambito autoreferenziale può parlare del Signore, ma non può confidare in lui.
Per confidare nel Signore non si può essere persone o ambiti chiusi che si pensano bastanti a sé stesse, ma persone o ambiti che accettano il proprio limite e che sanno di aver bisogno di Dio e degli altri e che gli altri hanno bisogno di loro.
«Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16,31). Per aprirsi non dobbiamo aspettare o cercare segni eclatanti: basta guardare a Cristo ed ascoltare la sua parola.
Se non ascoltiamo la vita, così come essa è e come ci è chiesto di accoglierla con le sue possibilità e i suoi limiti, non potremo colmare tutte le percorribili distanze con gli altri e predisporsi ad accogliere la vita in pienezza.