Giovedì quarta settimana di Pasqua: At 13,13-25 Sal 88 Gv 13,16-2
Il brano degli Atti che abbiamo ascoltato, ci presenta il primo discorso tenuto in un contesto liturgico da Sàulo, che a partire proprio da questi versetti inizia ad essere chiamato “Paolo”, quasi a sancire definitivamente la sua vocazione di apostolo dei pagani.
Questo suo primo discorso, però, non lo tiene davanti ai pagani, ma in una sinagoga. Rispondendo alla sollecitazione fatta dai capi della sinagoga, «Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate!» (At 13,15), Paolo si alza e inizia a parlare.
Il suo intervento è quello di un Ebreo esperto di Scrittura che, avendo incontrato Cristo, legge la storia del popolo di Israele con una prospettiva nuova, sulla falsariga dei discorsi di Pietro e, addirittura, di Stefano, il diacono alla cui lapidazione aveva partecipato.
Paolo arriva a presentare la centralità di Gesù Cristo ricordando le parole con cui Giovanni il Battista annunciava la venuta del Messia atteso: «Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”» (At 13,25).
Le parole di Giovanni, oltre a parlare della presenza del Messia, indicato poi in Gesù di Nazaret, tendono a chiarire e definire bene l’identità di chi annuncia e di chi viene annunciato.
Anche Gesù, come emerge dal brano del vangelo, mantiene le opportune distinzioni tra servo e padrone, tra la sua esperienza e quella dei discepoli.
Lo scopo delle parole di Gesù, però, non è quello di esaltare la sua superiorità divina, ma di porre un freno al nostro — spesso sfacciato — tentativo di elevarci oltre misura: «In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,16).
I discepoli possono sperimentare la beatitudine sapendo che la vera grandezza non si esprime nel tentativo di elevarsi, ma nel chinarsi per servire, come uno schiavo di fronte al proprio padrone, come Gesù ha appena fatto lavando i piedi ai suoi discepoli.
Gesù si è chinato e ha lavato i piedi a tutti, anche a colui che stava per tradirlo, colui che alza contro di lui il suo calcagno (Gv 13,18), come dice lo stesso Gesù, citando un versetto 10 del Salmo 41.
Tutto quello che sta per accadere e che Gesù profetizza durante la Cena – il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, la consegna alla morte –, rivelerà in modo insuperabile e definitivo il suo mistero, la sua identità, il volto vero di Dio e del suo amore. «Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io sono» (Gv 13,19).
Il gesto di lavare i piedi, dunque, non è soltanto l’umile servizio dello schiavo, ma il gesto di chi, nell’amore, dona la propria vita ai discepoli, per riscattare il loro peccato, il loro tradimento, la loro fuga.
Le ultime parole di questo brano, sul senso dell’invio e dell’accoglienza di chi è mandato, vengono illuminate e chiarite proprio dal contesto in cui sono inserite: «In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20).
L’inviato è chiamato ad essere segno di Gesù e del Padre. Segno e presenza.
Accogliere chi è inviato significa accogliere Gesù e accogliere Gesù significa accogliere il Padre, che ha mandato nel mondo suo Figlio, «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17).
Chi è inviato, pertanto, è testimone, presenza, annuncio di questo amore incondizionato e senza misura del Padre, che si è manifestato nel Figlio e che ora deve manifestarsi nel discepolo e nella sua missione.
Il discepolo può annunciare la verità del vangelo, esortare a una buona condotta morale, formare alla vita spirituale, solo se la sua testimonianza è davvero radicale, se con la sua vita fa percepire quanto davvero Dio ha amato e continua ad amare ogni donna e ogni uomo venuti in questo mondo.
Per vivere questa testimonianza, questa presenza, il discepolo deve assumere la piena consapevolezza che suo compito non è quello di salvare il mondo, perché è già stato salvato, ma di irradiare, con l’amore, la luce della risurrezione.