Omelia Badia Fiorentina 12 maggio 2023

Venerdì quinta settimana di Pasqua: At 15,22-31   Sal 56   Gv 15,12-17

Il «tutti d’accordo» (At 15,25) di cui parla la prima lettura, è preceduto da momenti di forte turbamento e da accese discussioni: alcuni cristiani provenienti dal giudaismo si sono portati dietro la loro mentalità rigida ed escludente e vogliono imporla anche agli altri.

Queste persone ritenevano che non si potesse passare direttamente dal paganesimo al cristianesimo, ma che si dovesse diventare prima ebrei, trasformando così in ideologia criteri e norme date come segno di appartenenza al popolo giudaico.

Questo è un modo di pensare che dà più valore alle prescrizioni che a Cristo e alla sua risurrezione e che, di fatto, mette in questione la gratuità della salvezza e la libertà dello Spirito.

L’intesa trovata in seno alla comunità cristiana di Gerusalemme riconosce che la salvezza deriva solo da Cristo. E, nella lettera che scrivono ai cristiani di Antiochia, gli apostoli riconoscono pure che da soli non sarebbero arrivati a percorrere una strada nuova, che porta lontano dalle certezze della consolidata pratica giudaica: «È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi» (At 15,28).

È parso bene non imporre norme legate all’identità giudaica, ma solo alcune norme funzionali a non confondere il cristianesimo con il paganesimo, come astenersi dalle carni immolate agli idoli (Cfr At 15,29).

La comunità di Antiochia, letta la lettera che gli viene consegnata e spiegata a voce, passa dal precedente turbamento alla gioia.

La rigidità genera sempre turbamento e moltiplica gli scrupoli. Quando invece la forza e la libertà del vangelo viene dilatata, senza però diluirla, si vive la gioia per la gratuità della salvezza.

Del resto, il sentimento di gioia gli apostoli lo hanno sicuramente vissuto ascoltando la rivelazione di amicizia fatta loro da Gesù: «vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

Un’amicizia talmente intima che li ha resi partecipi della relazione di Gesù con il Padre e che viene suggellata da Gesù con il dono della sua vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13).

Nel contesto dell’ultima cena, Gesù dona il suo comandamento «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).

Dobbiamo stare attenti a non fraintendere il senso del termine comandamento, perché non si può amare a comando. Amarsi gli uni gli altri è un modo di vivere le relazioni di chi si sente amato. E dobbiamo anche tener presente che la richiesta di Gesù non è solo di amarci gli uni gli altri, ma di amarci “come” lui ci ha amati.

Gesù ha dato la vita per i suoi amici. Amici che non lo avevano capito, che nel momento cruciale lo hanno tradito, rinnegato, abbandonato. Gesù ci ama senza alcun nostro merito: ci ama per quello che siamo. Ci ama senza condizioni, per convertire i nostri cuori col suo amore.

Gesù va oltre il criterio sancito nell’Antico Testamento, «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 18,19), che rimane valido ma che deve essere vissuto nell’ottica di un amore che chiama a una specifica e speciale relazione di amicizia con lui (Cfr Gv 15,15) e fra noi.

È dentro l’esperienza dell’amore ricevuto che possiamo amare fino a dare la vita per chi si ama. Dare la vita non è sacrificarsi, ma tirare fuori il meglio di noi stessi.

Essere amici di Gesù significa costruire tra di noi una relazione che abbia l’impronta dell’amore di Dio. Un amore che non viene dalla benevolenza ma dalla fede.

Scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est: «Imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico» (n. 18). La mancanza di carità in buona sostanza è una mancanza di fede.

Amarsi fra discepoli non chiude in un cerchio ristretto, ma testimonia un amore, quello di Dio, che tutti cerca e tutti include nella sua amicizia.

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