Omelia Badia Fiorentina 20 luglio 2023

Giovedì quindicesima settimana tempo ordinario – dispari: Es 3,13-20   Sal 104   Mt 11,28-30

Per comprendere il dialogo tra Dio e Mosè, proposto dalla prima lettura, è necessario leggerlo tenendo presente la prima lettura di ieri, che narra come davanti agli occhi di Mosè si presenta un roveto che, pur avvolto dalle fiamme, non si consuma. Una visione accompagnata da una parola che ne esplicita il senso.

Per combattere le situazioni di oppressione, come quella in cui si trovano gli israeliti, si pensa che la soluzione possa essere quella di ricorrere alla violenza, come aveva fatto Mosè, desideroso di fare giustizia, uccidendo l’egiziano che maltrattava un ebreo.

Quell’atto di violenza, però, non solo non ha contribuito a risolvere la situazione, ma ha portato Mosè a emigrare per non cadere nella morsa del Faraone ed evitare la crescente ostilità nei suoi confronti da parte degli stessi ebrei.

Ora, parlandogli dal roveto in fiamme, Dio incarica Mosè di tornare in Egitto per liberare il popolo, confidando solo in lui e nella sua parola. Di fronte a questa richiesta, Mosè pone a Dio una domanda chiara: «Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?» (Es 3,13). Dio non si sottrae alla domanda e risponde dando di sé stesso due definizioni.

La prima, «Io sono colui che sono» (Es 3,14), non lascia solo intendere che Dio è mistero, ma – come rilevano alcuni esegeti – la formula utilizzata significa quello che in italiano esprimiamo con “volere”, indicando che Dio non è determinato nel suo essere se non da sé stesso, dalla sua volontà, dalla sua libertà: io sono quello che voglio essere e voglio essere per voi, con voi.

La seconda definizione, già usata presentandosi a Mosè dal roveto in fiamme, conferma che lui è un Dio in relazione, un Dio vicino, solidale e fedele alla sua alleanza: «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Es 3,6.15-16).

Di fronte a una situazione pesante e apparentemente senza via di uscita, come la schiavitù degli Ebrei in Egitto, è facile, come aveva fatto Mosè, ricorrere alla violenza per combattere i soprusi, ma è altrettanto facile scivolare nello scoraggiamento, nello smarrimento della speranza, nella rassegnazione e nella chiusura, dove il lamento resta l’unico modo per dar voce al disagio vissuto.

Dio propone un cambio di prospettiva: né rassegnati né violenti, ma fiduciosi nella sua azione.

La durezza del Faraone non renderà affatto facile la missione di liberazione affidata a Mosè, però «l’intervento di una mano forte» (Es 3,19) Dio non l’affida all’uomo, ma lo riserva a sé stesso.

Gli stanchi e gli oppressi ai quali si rivolge Gesù, sono gravati da pesi differenti da quelli degli schiavi, anche se quello che dice vale pure per gli schiavi di tutti i tempi, indipendentemente da chi o da cosa sono asserviti.

Probabilmente, dato il contesto, Gesù si riferisce anche a quella stanchezza e a quell’oppressione che derivano dal giogo della legge, con le sue minuziose prescrizioni, che curvano il credente sotto il loro peso. Soprattutto finiscono con il deformare, addirittura sfigurare, il volto di Dio e, di conseguenza, anche la nostra immagine: da figli, in servi e schiavi, anche quando ci poniamo come tiranni.

A quelle persone semplici, per le quali rende grazie al Padre, come abbiamo ascoltato nel brano del vangelo di ieri, Gesù rivolge un invito a seguirlo. E lo fa con tre imperativi: «venite a me» (Mt 11,28), «prendete il mio giogo», «imparate da me» (Mt 11,29).

A chi va a lui con fiducia e si mette nelle sue mani, Gesù promette ristoro e riposo, rivelando così un volto di Dio completamente diverso da quello presentato dai sapienti e dall’autorità religiosa del tempo.

In polemica con gli scribi e i dottori della legge, anche il secondo imperativo, «prendete il mio giogo» (Mt 11,29), tende alla liberazione. Nel contesto dell’Alleanza, la tradizione biblica utilizza l’immagine del giogo per indicare lo stretto vincolo che lega il popolo a Dio e, di conseguenza, la sottomissione alla sua volontà espressa nella Legge. Gesù, però, vuole che scopriamo la volontà di Dio in una relazione, mediante la sua persona, non mediante leggi e prescrizioni fredde.

Gesù, ai discepoli di tutti i tempi, prospetta un cammino di libertà segnato dalla croce; un cammino di conoscenza e di imitazione: «imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29).

Sono proprio la mitezza e l’umiltà che possono frenare le nostre inquietudini, renderci veri discepoli e predisporci, nella libertà, a una vera comunione con Cristo e con i nostri fratelli e le nostre sorelle.

 

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