Schema Omelia domenica 16 luglio 2023

Quindicesima domenica tempo ordinario – anno A: Is 55,10-11   Sal 64   Rm 8,18-23   Mt 13,1-23

Quando da bambino andavo a “dottrina” – il catechismo degli anni cinquanta – ci veniva detto che Gesù parla in parabole per essere capito dalla gente. Cosa che, spesso, si dice anche oggi.

Nel brano del vangelo che abbiamo ascoltato, però, Gesù, rispondendo ai suoi discepoli, dice esattamente il contrario: alla gente «parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono» (Mt 13,13).

L’annuncio del Regno è per tutti, ma per vedere, ascoltare e credere è necessario avere il cuore e la mente aperti a tutte le dimensioni del sapere e dell’esistenza; apertura agli altri, alle dinamiche sociali e, soprattutto, alla parola di Dio: «chi ha orecchi ascolti» (Mt 13,9),

L’annuncio non trova spazio quando il cuore e la mente sono già pieni dello spirito del mondo, anche se mascherato con linguaggio, pratiche e visioni religiose che apparentemente lo combattono.

La parabola usa immagini familiari per la realtà del tempo, ma, ieri come oggi, la comprensione non è immediata, perché veicola un messaggio sapienziale che non arriva diretto. Lo possono comprendere solo le persone che si interrogano; le persone che non si arroccano nella convinzione che la loro vita e le loro visioni non abbiano bisogno di essere profondamente riviste.

Quando il nostro pensare e il nostro sentire diventano totalizzanti è come se ci chiudessimo dentro una bolla, dove la nostra idea sostituisce la realtà e le smentite che la vita si incarica di inviarci le interpretiamo come causate dal pensiero e dall’atteggiamento degli altri.

Lo svuotamento delle chiese, ad esempio, sarà totalmente attribuito alla crescita dell’indifferenza della gente, senza domandarci mai se in qualche modo la nostra religiosità, troppo spesso rimasta infantile e senza concreto e positivo impatto sulla vita reale, non ha in qualche modo contribuito a far perdere significatività al cristianesimo.

Per affrontare i problemi della nostra società e quelli della Chiesa, invece, sono necessarie persone con una visione e una pratica di fede dinamica, pensante e matura.

Parabola, da para-ballein, può anche significare gettare avanti. E la nostra vita, compresa la nostra vita di fede, si realizza proprio proiettandosi in avanti, non chiudendosi nel già conosciuto.

Gesù, dicendo che lo Spirito santo ci «guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13), è come ci avesse detto che dobbiamo continuamente andare avanti, senza mai fermarci.

Come singoli e come comunità cristiana, la parabola che abbiamo ascoltato ci invita, anzitutto, a un ripensamento profondo su quanto la parola di Dio sia centrale nella nostra vita e nelle nostre pratiche religiose.

Come ogni parabola, anche quella del seminatore, parte dalla vita quotidiana e spinge in avanti la riflessione e l’esperienza, aiutando l’ascoltatore a capire quello che è e quello che vorrebbe essere.

«Il seminatore uscì a seminare» (Mt 13,3), gettando il seme ovunque, con abbondanza. Il seme è la parola. La parola è Cristo stesso che racconta la parabola. Gesù è anche il seminatore.

Dopo aver descritto la sua attività come seminatore che semina sé stesso, Gesù pone l’accento sul risultato, sull’accoglienza e sulla risposta, che i diversi terreni danno dopo aver ricevuto il seme.

C’è chi riceve il seme con un’indifferenza, spesso dovuta a una sorta di impermeabilizzazione alla parola di Dio; c’è chi accoglie il seme con la gioia di un momento; c’è pure chi accoglie il seme con maggiore profondità, ma non è disposto a rinunciare ad altre priorità e interessi, tanto che alla fine non rimane lo spazio che consente al seme di fare frutti.

Ma c’è anche chi accoglie il seme con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima e con tutta la sua forza. Non è importante il risultato finale, che può andare dal 30 al 100 per uno, ma la totale disponibilità all’ascolto.

La varietà dei terreni sui quali il seme cade può significare la diversità degli ascoltatori, ma anche la diversità che si può trovare dentro ciascuno di noi. Nessuno è totalmente terreno buono o terreno cattivo.

La logica del Vangelo è quella del frutto, non quella di una ipotetica fedeltà che illusoriamente si pensa faccia superare problemi e difetti.

Tutti siamo chiamati ad accogliere il seme in modo che faccia frutto. Basta coltivare dentro di noi quella sana inquietudine che apre a nuovi ed ulteriori orizzonti e credere che il Signore non ci farà mai mancare il seme della sua Parola e che questa Parola, qualsiasi sia la nostra condizione, non ritornerà a lui «senza effetto» (Is 55,11).

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