Omelia Badia Fiorentina 18 marzo 2021

Giovedì dellla quarta settimana di Quaresima: Es 32,7-14   Sal 105   Gv 5,31-47

Mentre Mosè si trova sul monte Sinai faccia a faccia con il Signore, il popolo si sente smarrito, percepisce un vuoto, non sente Dio presente e non c’è nessuno che parla a suo nome e che indica la strada.

La fiducia nel Dio che ha portato il popolo fuori dalla schiavitù d’Egitto, si è sempre mostrata traballante e altalenante, ma ora è venuta meno. Il popolo vuole soddisfare i propri sensi e chiede qualcosa di tangibile.

Aronne viene convinto a costruire un segno e a celebrare una festa per la “ritrovata” presenta del Signore (cfr Es 32,1-6). Ma Dio non si identifica con quell’immagine che il popolo si è costruita, né con nessuna immagine, mentale o materiale, che gli uomini si costruiscono di lui.

Il brano proposto come prima lettura inizia con le parole con cui il Signore prende le distanze da Israele, causa dell’idolatria compiuta con la costruzione del vitello d’oro: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito» (Es 32,7).

Ritenendo impossibile ogni cambiamento sulla base del comportamento tenuto, Dio considera Israele «un popolo dalla dura cervìce» (Es 32,9) e ne sanziona la distruzione, non riconoscendolo più come il popolo dell’alleanza.

Nonostante questa decisione, il brano si conclude con il Signore che torna a guardare Israele come suo popolo.

Nel percorso tra la decisione di distruggere Israele e la conferma della benevolenza verso il suo popolo, un ruolo essenziale è svolto da Mosè, al quale Dio sembra chiedere il permesso di intervenire, lasciandogli così uno spazio per l’intercessione, quasi volesse farsi persuadere e rivedere il proprio atteggiamento: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10).

Mosè entra in dialogo con Dio per «addolcire la faccia del Signore» (Es 32,11), come indica la traduzione letterale. Anzitutto rifiuta decisamente di ricevere un trattamento preferenziale rispetto a una comunità di cui si sente membro e pastore. E poi si rivolge a Dio, senza giustificare Israele né ridimensionare il suo peccato, ma facendo appello non solo alla sua misericordia, ma soprattutto alla sua giustizia, rimanendo fedele a sé stesso.

La scena si chiude segnalando l’effetto delle parole di Mosè su Dio: «Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (v. 14).

La salvezza del popolo coincide con la “conversione” di Dio, con la decisione di Dio di riprendere il rapporto con questo popolo mantenendo fede alla sua promessa, indipendentemente dal suo comportamento.

In un certo senso anche il brano del Vangelo parla di un’opera di convincimento, che però non raggiunge lo stesso positivo epilogo.

Gesù, accusato dai Giudei per la guarigione del paralitico nel giorno di sabato (cfr Gv 5,1-16), per poter dare loro “vita”, cerca di convincerli: se non credono alle sue parole possono credere alla testimonianza del Battista (cfr Gv 5,31-35), alle opere che il Padre gli ha dato di compiere (cfr Gv 5,36-38), a quanto nella Scrittura si riferisce a lui (cfr Gv 5,39.46).

Col suo argomentare, Gesù mette sotto accusa i Giudei: vi vantate di custodire la Parola che Dio ha trasmesso, ma non date ascolto alla voce che Dio fa risuonare nell’oggi della vita, perché non credete e «non avete in voi l’amore di Dio» (Gv 5,42).

Con le sue parole, Gesù mette tutti e ciascuno dinanzi alle proprie responsabilità. Parole che, allora come oggi, non bastano però a scalfire la corazza di chi è chiuso nella certezza che le proprie convinzioni siano giuste e sante, tanto che queste convinzioni rischiano di non consentire a Dio di illuminare la vita, di allargare gli orizzonti, di indicare una diversa possibilità.

Quello che dice Gesù ai Giudei vale per le persone di ogni tempo. Non basta aprire la Bibbia, occorre aprire il cuore. Non basta leggere avidamente la Parola, occorre imparare ad ascoltare con amore quello che Dio vuole dirci nell’oggi della nostra vita, anche attraverso la vita e la voce, spesso scomode, dei fratelli e delle sorelle.

Mi pare assai significativo che, come testimonia la prima lettura, Dio si “converte” per l’intercessione di Mosè e l’amore per il suo popolo e, come testimonia il Vangelo, i Giudei, interpellati da Gesù con le sue opere e la sua parola, rimangono chiusi, per mancanza di amore, pur portatori di alcune verità.

Come scrive Papa Francesco nella «Patris corde», nel 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe Patrono della Chiesa universale indicendo un anno a lui dedicato: «anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona».

Come dire: la verità senza misericordia, senza tenerezza, ci può portare alla rovina, può rovinare anche le nostre relazioni interpersonali e comunitarie.

Il Signore ci conceda quell’amore che rende aperti alla sua Parola, che sempre ci supera e ci rinnova.

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