Giovedì undicesima Tempo Ordinario 1: 2Cor 11,1-11 Sal 110 Mt 6,7-15
Conquistato dalla grazia del Risorto, la debolezza e la follia della croce sono state il centro e l’anima della vita di Paolo e della sua predicazione.
Con chiarezza si oppone a viso aperto contro chi predica un vangelo diverso e ammonisce con fermezza coloro che si lasciano irretire da dottrine umanamente seducenti, ma che portano in direzione diversa dalla conversione chiesta da Gesù come necessaria per accogliere il Regno di Dio.
Gesù chiede anche quella che potremmo chiamare la conversione della preghiera e lo fa insegnando il Padre nostro ai suoi discepoli.
La conversione della preghiera esige il superamento della visione basata più sull’azione dell’uomo che su quella di Dio. Il superamento della convinzione, frutto della sopravvalutazione dell’azione umana, che si può essere esauditi in base alla durata della preghiera, al moltiplicarsi delle parole (cfr Mt 6,7).
Dio, non solo sa quello di cui abbiamo bisogno prima ancora che lo chiediamo, ma soprattutto sa quel che è bene per noi al di là di quello che chiediamo e che non siamo nemmeno in grado di vedere e di chiedere.
La preghiera vera è apertura, uscita da sé stessi, relazione cuore a cuore, affidamento.
Niente a che vedere con quella autoreferenziale vanità, che allontana da Dio e svuota di senso ogni cosa, dalla quale Gesù mette in guardia, invitando a non suonare la tromba quando si fa l’elemosina, a non mettersi al centro dell’attenzione quando si prega e a non assumere un’aria triste quando si digiuna (cfr Mt 6,11-18).
La conversione da una preghiera pagana alla preghiera cristiana, si compie quando la verità e la profondità del rapporto con Dio ci fa sentire il nostro essere figli e fratelli e ci rende consapevoli di questa nostra identità.
Non ci si può sentire figli e fratelli se ci si rivolge a un dio generico, astratto, senza specifica identità. E neppure guardando a un’impersonale forza cosmica, pensando di realizzare sé stessi perdendo in essa la propria personale identità.
Il Dio a cui rivolgersi non è un dio generico o una forza impersonale, ma il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 1,3; Col 1,3), che Gesù libera da ogni ambiguità interpretativa, offrendoci l’identikit con la sua predicazione. Un Dio che Gesù invita a chiamare Padre.
Non semplicemente padre, però, e neanche un riduttivo e fuorviante padre mio, ma Padre nostro. Solo se lo sentiamo, e a lui ci rivolgiamo, come Padre nostro, percepiamo la nostra identità di figli e di fratelli.
Una certa familiarità, pure disinvolta e confidente, con Dio (cfr Ef 3,11-12), nasce proprio dalla consapevolezza di essere figli amati dal Padre.
Il cristiano, divenuto figlio nel Figlio Gesù, si rivolge a Dio come un figlio a suo padre. In questo speciale rapporto filiale c’è l’originalità cristiana (cfr Gal 4,6; Rm 8,15).
L’aggettivo nostro esprime l’aspetto comunitario della preghiera e ci porta a ripensare il rapporto con gli altri, che Gesù pone addirittura come misura del rapporto di Dio con noi.
Nel capitolo precedente Matteo aveva messo in luce l’esigenza di amare anche i nemici, ora mette in luce una sua concreta manifestazione: il perdono.
A questo proposito, mi pare assai significativo che, alla fine del Padre nostro, venga commentato un solo punto, quello sulla remissione dei debiti ((Mt 6,11): «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6, 14-15).
Per pregare, quindi, è necessario collocarsi, con il cuore e con la mente ed anche con la volontà, nell’ambito della relazione filiale con Dio e di quella fraterna con gli altri, iniziando da chi incontriamo sul nostro cammino; da coloro con i quali condividiamo la casa, la scelta di vita, il lavoro, la missione.
La preghiera insegnata da Gesù termina con la richiesta di essere liberati dal male. Ciascuno di noi è cercato e sollecitato dal maligno e, sicuramente, almeno in qualche occasione ci lasciamo sedurre da lui.
Il maligno potrà pure allontanarci da Dio, anche semplicemente offuscando la nostra visione di lui e dei fratelli e delle sorelle che ci stanno accanto, ma niente è mai perduto, perché nessuno ci può separare dall’amore di Cristo e dall’amore del Padre (cfr Rm 8,35-39)
Non devono mai venire meno, però, la fiducia nel Padre e la nostra invocazione al Padre, soprattutto nei momenti decisivi della vita, come ha fatto Gesù nel corso del suo cammino terreno, fino all’ultimo respiro: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23, 46).