Schema Omelia di domenica 20 giugno 2021

XII Tempo Ordinario Anno B: Gb 38,1.8-11   Sal 106   2Cor 5,14-17   Mc 4,35-41

«Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede» (2Cor 5,14). Più esattamente synecho (qui tradotto possiede) significa tenere insieme, spingere. Come dire: l’amore di Cristo ci tiene insieme, ci spinge, ci pressa.

Basterebbe tenere fissa questa realtà nella mente e nel cuore, per trovare risorse inesauribili sia per osare quei cambiamenti personali e comunitari ineludibili per essere generativi, sia per affrontare ogni attacco di sconforto e scoraggiamento, fosse pure quello che ci arriva dalla difficoltà a superare i nostri sbagli e il nostro peccato.

Concentrarsi sui propri sbagli e sul proprio peccato, fra l’altro, ha un effetto paralizzante ed è segno di falso pentimento. Potremmo addirittura dire che un’eccessiva concentrazione sugli errori e sui peccati è strumento del demonio, che vuole farci perdere la fiducia nei nostri mezzi e nella grazia di Dio.

Come i discepoli sulla barca, può capitare anche a noi, nel corso della nostra vita, di sperimentare momenti di paura e di smarrimento, talvolta anche di terrore, in cui tutto sembra rivolgersi contro di noi e ogni cosa sembra sfuggirci di mano.

Toccare anche crudamente il nostro limite e le nostre fragilità, anche se doloroso, può essere un bene grande e prezioso, perché «lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità», come ha detto Papa Francesco il 27 marzo del 2020, durante l’indimenticabile preghiera per la pandemia, in una deserta Piazza San Pietro, proprio commentando il brano del vangelo di Marco che oggi abbiamo ascoltato.

La giornata è stata pesante e, terminato il discorso in parabole dalla barca (Mc 4,1-34), Gesù chiede di passare all’altra riva e subito, per la stanchezza, crolla dal sonno e si addormenta a poppa, su un cuscino, tanto da non accorgersi della tempesta che travolge la barca che lo sta portando attraverso il mare di Galilea.

Vento forte, mare agitato, barca piena d’acqua. I discepoli erano pescatori sperimentati e se temono che la barca possa affondare, significa che la situazione è pericolosa.

Gesù si sveglia, non a causa delle onde, ma per il grido disperato dei discepoli: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38).

Subito Gesù fa tornare la bonaccia rivolgendosi direttamente al mare, con il tono e le parole con cui in precedenza si è rivolto all’indemoniato: «Taci, calmati!» (Mc 4,39). E poi fa un forte richiamo ai discepoli «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).

Qui la mancanza di fede non è riferita al non credere in Dio, ma alla mancanza di fiducia in Gesù espressa dal pensare che Gesù possa disinteressarsi della loro sorte: «non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38).

Quanto operato da Gesù non cancella il timore dei discepoli, che rimane, anche se adesso assume un’altra connotazione che ben si sposa con lo stupore: «furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4,41).

Nella prima lettura, che presenta la fine del discorso che Dio rivolge a Giobbe per metterlo davanti alla sua piccolezza e fargli riconoscere il limite del suo punto di vista, ritroviamo proprio l’immagine del mare come minaccia di morte, come rappresentazione del male che vorrebbe travolgere ogni cosa con il suo orgoglio.

Come il mare, il male è sempre orgoglioso e presuntuoso e tende proprio a travolgere l’uomo. Dio, però, pone un limite all’orgoglio del mare (cf Gb 38,10) e del male, anche se non sempre nei tempi e nei modi da noi auspicate e comprensibili.

È proprio nel tempo della fatica, del fallimento e del buio che emergono le profonde domande della vita e anche la qualità della relazione che abbiamo con Gesù.

La fede chiede di riuscire a vedere e affrontare il visibile, come la tempesta, a partire dall’invisibile che è comunque ugualmente concreto: vedere la vita con la fiducia nel Signore che è più forte delle nostre paure e che conosce quello di cui abbiamo bisogno per il nostro vero bene.

È proprio nella tempesta, infatti, quando siamo presi dalla paura e la nostra fiducia vacilla, che paradossalmente emerge in noi la stessa domanda dei discepoli: Chi è Gesù? Chi è Gesù per me?

Ma come ricorda papa Francesco nel discorso del 27 marzo: «L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti…: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle… Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai».

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