XXXIII Domenica Tempo Ordinario Anno B: Dn 12,1-3 Sal 15 Eb 10,11-14.18 Mc 13,24-32
Con l’invito, ascoltato e meditato domenica scorsa, a osservare il gesto della vedova e a guardarsi dagli scribi, che fanno di tutto per cercare visibilità e l’approvazione della gente, (Mc 12,38-44), Gesù cerca di educare i discepoli a guardare le cose con uno sguardo nuovo.
Ed è proprio uno sguardo nuovo quello che serve per leggere l’azione di Dio nella storia, che cammina verso la pienezza in Cristo, anche quando sembrano siano venuti meno i punti di riferimento, ci sentiamo smarriti e presi dall’angoscia. Serve uno sguardo nuovo per penetrare la realtà e vedere ciò che non appare ancora evidente, pur essendo scritto nelle dinamiche del presente,
Utilizzando un linguaggio apocalittico, ricco di simboli e immagini – «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» (Mc 13,24) – Gesù intende preparare e educare i suoi a interpretare gli sconvolgimenti della storia e annunciare la nascita di un mondo nuovo.
Con le sue parole, Gesù dà la certezza che, nelle difficoltà e delle tribolazioni che accompagnano la nostra storia, personale e collettiva, non lascia soli coloro che in lui credono e a lui si affidano: «Manderà i suoi angeli e radunerà i suoi eletti» (Mc 13,27).
Con la parabola del fico, invece, Gesù ci dice che con uno sguardo nuovo si possono vedere i segni del Signore che viene (cfr Mc 13,29), anche nell’inverno della vita.
Quelli di cui parla Gesù non sono segni proiettati in un futuro a noi lontano, perché i tempi ultimi del mondo vecchio iniziano con la passione e risurrezione del Signore: «Non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mc 13,30).
Non a caso le parole e le immagini presenti nel brano che abbiamo ascoltato, l’evangelista Marco le ripropone nel racconto della morte di Gesù: «Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio» (15,33).
Con la croce di Gesù finisce il mondo in cui l’uomo è schiavo del male. La novità di Cristo comincia quando i riferimenti tutti umani non servono più, quanto tutto sembra finire.
Non si tratta di attendere e rimandare ad un ipotetico domani migliore le scelte della vita. Si tratta di vedere, interpretare e di scegliere nell’oggi della nostra vita, sapendo che in Cristo tutto è compiuto.
Un nuovo sguardo, per guardare la vita e la storia, è dunque essenziale. Ma il brano di oggi si conclude richiamando l’importanza dell’ascolto: quando tutto passa, rimane una parola alla quale occorre prestare attenzione: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mc 13,31).
Solo chi ascolta e si lascia plasmare dalla parola di Dio potrà navigare nelle tempeste della vita senza affondare e senza smarrire la direzione.
Lasciarsi illuminare dalla parola del Signore apre a una prospettiva di eternità e fa vivere con i piedi ben radicati a terra.
La forza immanente e trascendente della parola di Gesù Cristo, ci impedisce di fuggire dalla concretezza della realtà e, nello stesso tempo, di venire assorbiti dalle dinamiche del presente. E ci preserva dal perdersi in spiritualismi astratti e di cadere nelle seducenti trappole delle ideologie e delle illusorie, che poi si ritorcono sempre contro noi stessi, come insegna la storia e l’esperienza.
Per troppo tempo, ad esempio, in certi ambiti si è ideologicamente sostenuto – e ancora si sostiene – che l’idea di educazione è superata e che occorre puntare su informazione e istruzione. Ma la solidità di una persona non si costruisce solo con informazione e istruzione. La cronaca, e la nostra stessa esperienza, rivelano come il vuoto di solidi e credibili punti di riferimento educativi e la mancanza di relazioni significative, stiano producendo drammatiche conseguenze, sul piano personale e sociale.
Fondarsi sull’ascolto della parola che non passa e assumere uno sguardo nuovo, aiuta a vivere in modo responsabile e creativo le relazioni e a porsi in modo nuovo di fronte alle situazioni e alle persone.
Ad esempio, aiuta a non fermarsi all’elemosina e ad aprirsi alla condivisione, dando voce e dignità a chi si trova nella povertà: «un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L’elemosina, è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia» (Messaggio V Giornata Mondiale dei Poveri, 3).
Un nuovo sguardo fa anche capire che «I poveri non sono persone “esterne” alla comunità, ma fratelli e sorelle con cui condividere la sofferenza, per alleviare il loro disagio e l’emarginazione» (n. 3). E fa pure capire che ciascuno di noi vive delle povertà, che occorre saper interpretare ed esprimere.
Basta pensare alla povertà generata dalla mancanza di sorriso: quello che non riceviamo e quello che non riusciamo a donare. Senza sorriso e senza condivisione è come se, nella nostra esistenza, il sole si fosse oscurato e la luna non emanasse più luce.
Per costruire un futuro diverso e più luminoso di quello che i pensieri e i comportamenti del presente sembrano preparare, bisogna mettersi in gioco e osare quella cultura dell’incontro e della fraternità, fondandosi su Cristo e sulla sua parola.