Schema Omelia domenica 21 maggio 2023

Ascensione del Signore A: At 1,1-11   Sal 46   Ef 1,17-23   Mt 28,16-20

Matteo non riporta il racconto dell’Ascensione del Signore, ma conclude il suo Vangelo mostrando gli Apostoli che si radunano in Galilea, «sul monte che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16), dove avviene l’ultimo incontro col Signore risorto.

Più che mettere in evidenza la partenza di Gesù, Matteo sottolinea la sua definitiva presenza in mezzo ai suoi discepoli, alla Chiesa nascente: tutte le azioni del Risorto riportate da Matteo parlano di relazione, dicono la vicinanza di Gesù con i suoi.

La prima azione di Gesù è quella di avvicinarsi – «Gesù si avvicinò» (Mt. 28,18): sembra voler colmare la distanza che i giorni della passione avevano creato tra lui e i discepoli. La seconda azione è quella di parlare direttamente: «e disse loro» (Mt. 28,18).

Gesù non è più il Maestro che agisce, insegna e guarisce, ma è il Risorto che chiede ai discepoli di agire e di annunciare, affidando a loro il mandato di continuare la sua opera, dando loro una garanzia: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

I contenuti della missione affidata agli Apostoli sono chiari: annunciare, battezzare, insegnare e camminare sulla via tracciata dal Maestro, Vangelo vivo.

La missione implica prima di tutto la testimonianza: senza testimonianza non può esserci vero annuncio. Ed è proprio la testimonianza che è chiesta anche a noi, discepoli di oggi, per rendere ragione della nostra fede.

Di fronte alla richiesta di Gesù, pensando alle nostre contraddizioni e debolezze, la prima sensazione è quella di sentirsi inadeguati, come di certo si saranno sentiti anche gli Apostoli.

Del resto la scena finale del vangelo di Matteo è eloquente: ci presenta un gruppo che ha vissuto una defezione, un gruppo che ha fatto l’esperienza del proprio limite.

In Galilea, nella terra in cui era cominciato, davanti a Gesù ci sono undici apostoli, non più i dodici dell’inizio. Già questo numero racconta una storia di cammino, di amicizia, di speranze, di delusioni, di tradimenti.

C’è anche una seconda immagine che evidenzia la contraddizione e le debolezze degli apostoli e di ciascuno di noi: «Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitavano» (Mt 28,17).

Nel gesto degli Undici davanti a Gesù c’è tutta la dinamica della loro e della nostra vita spirituale: vedono – si prostrano – dubitano. Eppure Gesù affida la sua verità a gente che dubita.

Il compito di portare la sua Parola in tutto il mondo Gesù lo affida a una comunità “sempre traballante”: lo era quella degli inizi e lo è la nostra.

Anche noi, come gli apostoli, abbiamo incontrato il Signore nella nostra storia. In alcuni momenti arriviamo pure a riconoscerlo, ma poi quel ricordo pian piano sbiadisce e torniamo a dubitare.

Nella nostra vita ci sono sempre tratti che dicono che non siamo mai definitivamente veri e coerenti neppure con noi stessi.

Il brano che Matteo ci presenta non è il racconto del lieto fine di una storia che sembrava essere finita male. Matteo ci parla di un lieto inizio che apre alla speranza ogni persona di ogni tempo.

L’errore è di limitarsi a vedere e pensare Gesù come il figlio di Dio da pregare per avere la vita eterna, ma “altro” e lontano dalla nostra vita reale su questa terra, mentre lui è con noi e ci accompagna ogni giorno fino alla fine del mondo.

Siamo fatti di memoria, perché siamo frutto di ciò che è stato. Viviamo di speranza, guardando a quello che sarà e operando continuamente un nuovo inizio nell’oggi della nostra vita.

La prima lettura invita gli apostoli e tutti noi a non trascurare il proprio compito nel mondo: «perché state a guardare il cielo?» (At 1,11).

Svolgendo il nostro compito, però, come fa Paolo nella seconda lettura per i cristiani di Efeso, dobbiamo chiedere a Dio la sapienza per avere una più profonda conoscenza di lui e perché illumini gli occhi del nostro cuore, per arrivare comprendere quanto è grande la speranza alla quale sono stati chiamati (Cfr Ef 1,17-19).

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