Giovedì tredicesima settimana tempo ordinario – dispari: Gen 22,1-19 Sal 114 Mt 9,1-8
«Ed ecco, gli portavano un paralitico disteso su un letto» (Mt 9,2a). Non è certo la prima volta che nel Vangelo viene narrata una guarigione operata da Gesù, ma ogni situazione e ogni incontro è una storia a sé, con i suoi protagonisti e le sue vicende particolari.
«Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico» (Mt 9,2b). Al di là di quanto dicono i vari commentatori, non sappiamo se nel plurale usato dall’evangelista sia compreso anche il paralitico, ma appare comunque certo che quelli che lo hanno portato da Gesù erano mossi da un a fede intraprendente.
Nell’azione di questi “barellieri” è condensata tutta la missione dei discepoli: con fede, portare Cristo il mondo malato. Questo fatto motiva qualsiasi azione tesa ad alleviare la sofferenza spirituale e fisica di ogni persona e dà valore alla preghiera di intercessione.
Non è necessario che quelli per cui operiamo o per i quali preghiamo abbiano la fede. Sant’Agostino, ad esempio, alla fine delle sue Confessioni testimonia che solo la preghiera e le lacrime della madre Monica hanno fecondato la sua conversione.
L’evangelista non dice niente sui sentimenti provati dal paralitico e da coloro che lo avevano portato a Gesù perché lo guarisse, sentendogli dire: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati» (Mt 9,2). Però ci racconta che cosa alcuni scribi presenti dicono tra sé: «Costui bestemmia» (Mt 9,3).
Premesso che Gesù non ci ha insegnato a chiedere ogni giorno la salute del corpo, ma la grazia del perdono, «rimetti a noi i nostri debiti» (Mt 6,12), occorre tenere presente che Gesù anche quando guariva un malato non era soltanto né primariamente un guaritore.
Quando Gesù guariva o insegnava o usava parole forti contro l’ipocrisia indirizzava l’attenzione al suo essere mediatore di qualcosa di più grande: il Regno e la salvezza del Padre.
Come ogni persona, anche gli scribi hanno bisogno di essere guariti dalla paralisi che impedisce di riconoscere la misericordia di Dio e di dilatare il cuore nell’amore, per abbracciare tutti e cogliere ciò che c’è di buono in ciascuno.
La conoscenza delle Scritture anziché aiutare gli scribi a penetrare il mistero di salvezza, che è sempre nuovo, sembra avergli chiusi nel già conosciuto, come se le meraviglie di Dio facessero solo parte del passato.
Attraverso la guarigione del paralitico, Gesù si rivolge anche agli scribi e, con il suo gesto, li mette in discussione, li interroga, in modo che anche loro possano iniziare il cammino di accoglienza della misericordia di Dio e verso la piena capacità di amare.
«Che cosa infatti è più facile» (Mt 9,4). Pensare che sia più facile guarire un paralitico che manifestare la misericordia e il perdono dei peccati, fa coltivare nel cuore il malvagio pensiero che non si possa migliorare, cambiare, accogliendo la sanante azione di Dio.
Fidarsi di Dio ci fa ritrovare l’interezza e la pienezza della nostra umanità e rende liberi. Tutto il resto poi avviene in modo naturale: «egli si alzò e andò a casa sua» (Mt 9,7).
Riflettendo sulla prima lettura alla luce di questo brano del vangelo, potremmo anche domandarci: «Che cosa è più facile» (Mt 9,4), sacrificare il proprio figlio o liberarlo?
Il testo dice con chiarezza che «Dio mise alla prova Abramo» (22,1). Mettere alla prova significa saggiare la qualità e la solidità della fede per far crescere ancora, non mettere una persona in condizioni di disobbedire alla richiesta, come nel caso della tentazione, la cui prima finalità è cercare di far cadere, di far sbagliare.
Abramo risponde con la fede che Dio si aspetta da lui: «Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!» (Gen 22,8).
Alla fine del racconto, l’angelo del Signore rinnova per Abramo la benedizione e in certo modo la dilata: «ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare» (Gen 22,17).
Tutti – da Abramo al paralitico, dagli scribi a ciascuno e ciascuna di noi – siamo chiamati a sperare di più, andando oltre l’immediatezza del bisogno, del pensiero, delle reazioni, trovando il coraggio della fede, che ci porta sempre a preferire quello che rende la vita più vivibile e positiva, non ciò che la rende più pesante e difficile.